Home

Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

By : Aldo |Ottobre 10, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Smartphone e tablet: quale valore hanno una volta arrivati a fine vita?

Il riciclo ci permette di ridurre il numero di rifiuti nelle discariche e di emissioni di CO2 nell’atmosfera. Oggi è un processo ancora più rilevante per l’ambiente e la sostenibilità, ma, nonostante ciò, non è ancora ben sviluppato in tutti i settori. Quello dei dispositivi elettronici sembra essere in difficoltà.
   

Smartphone e tablet

I dispositivi elettronici “smart” sono nelle nostre vite da un decennio e hanno rivoluzionato totalmente la quotidianità di tutti. Dove con l’aggettivo “smart” si intende con capacità di calcolo, memoria e connessione per l’impiego di funzioni avanzate tramite app e navigazione Internet.

  

Nell’arco di soli 8 anni, i numeri relativi agli smartphone sono duplicati: oggi se ne contano 6,8 miliardi, mentre nel 2016 erano “solo” 3,6 miliardi. Tuttavia, in generale, i telefoni mobili (“smart” e non) utilizzati oggi nel mondo sono 7,3 miliardi.  A questi numeri sarebbe opportuno aggiungere oltre 500 milioni di cosiddetti “feature phones”. Si tratta di telefoni cellulari di base, privi di sistemi operativi complessi che possono essere utilizzati semplicemente per l’utilizzo delle applicazioni.

  

Per quanto riguarda l’Italia, il 77% delle persone possiede un telefono e le stime sulle loro spese creano un ampio quadro dell’economia tecnologica.  Infatti, secondo il V Rapporto Censis-Auditel, nel 2021 nella Penisola sono stati pagati più di 7,8 miliardi di euro per l’acquisto di telefoni e apparecchiature telefoniche. Una spesa che rispetto al 2017 è aumentata del 92%: si tratta dell’incremento più elevato registrato in assoluto per le varie voci di spesa.

Tali cifre rendono l’idea sull’ importanza di questi dispositivi, che tuttavia, una volta obsoleti diventano oggetti e reperti storici nei nostri cassetti.

   
Il valore di uno smartphone

Attualmente abbiamo consorzi di riciclo per molteplici tipi di rifiuti come plastica, carta, vetro, alluminio. Questi sono molto sviluppati poiché correlati ad una grande quantità di prodotti che utilizziamo quotidianamente, creando un’importante mole di rifiuti. Proprio per questa ragione e viste le cifre riportate precedentemente, sarebbe opportuno promuovere maggiormente le procedure di riciclo e riuso degli smartphone. Poiché una volta esausti, non vengono valorizzati, come anche tablet e altri dispositivi elettronici.

  

Quello che non tutti sanno però è che quegli oggetti hanno elevato valore, soprattutto se introdotti in una realtà di economia circolare. Tale caratteristica deriva dagli elementi di cui sono composti, ossia materie prime critiche (o terre rare) come cobalto nella batteria, indio nello schermo. O ancora tantalio, gallio e metalli preziosi nel circuito stampato; sono tutti materiali che se recuperati possono essere impiegati nuovamente in altri prodotti. In questo modo si riducono i costi e le emissioni di produzione e si evita la continua estrazione mineraria. Per questo è fondamentale incentivare la riparazione e il riutilizzo di piccoli dispositivi elettronici, nonché il riciclo quando arrivano a fine vita.

   

Riciclo e Riuso

Attualmente gli europei potrebbero restituire smartphone usati per 700 milioni di pezzi, che oggi sono chiusi in un cassetto. Non a caso la Commissione Europa ha deciso di adottare una serie di raccomandazioni politiche per migliorare e incentivare la restituzione dei dispositivi. Tra loro sono inclusi telefoni cellulari, tablet, laptop usati e i relativi caricabatterie.

  

Il vademecum mira a supportare le autorità nazionali nel massimizzare riutilizzo, riparazione e recupero di questi piccoli dispositivi elettronici. Anche perché oggi il tasso di raccolta dei telefoni cellulari è oggi inferiore al 5% in Europa. Tra le raccomandazioni, Bruxelles chiede ai paesi membri di mettere proporre incentivi finanziari come sconti, buoni, sistemi di restituzione o premi monetari. In questo modo i cittadini europei sarebbero spinti a restituire i loro dispositivi usati alimentando un ciclo “green”. Senz’altro è necessario aumentare l’uso dei servizi postali per la restituzione e promuovere partnership. Per esempio, potrebbero collaborare i consorzi che si occupano della raccolta dei rifiuti e le realtà che preparano i dispositivi elettronici per il riuso.

   

Tutti questi consigli si concretizzano con la nascita di realtà in questo settore o con una maggiore sensibilizzazione sul tema. Dunque, ecco cosa possiamo fare con un dispositivo elettronico esausto:

  • venderlo su siti specializzati o negozi reali per prodotti elettronici di seconda mano;
  • convertirlo in una sveglia, un telecomando, una telecamera di sorveglianza, una cornice digitale e un localizzatore;
  • portarlo nei negozi di elettronica, che sono obbligati a ritirare i vecchi apparecchi;
  • rottamarlo per ricevere in cambio denaro, buoni regalo o altro;
  • donarlo durante le iniziative di beneficenza che vedono protagonisti i cellulari

Coem vediamo un telefono può avere mille funzionalità diverse, l’importante è che non venga buttato nel cestino.  Se propri vogliamo disfarci di tali prodotti è meglio portarli in un’isola ecologica che tratta i materiali RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Altrimenti, se non conferiti negli appositi impianti di trattamento, diventano un pericolo per l’ambiente a causa dei veleni tossici che liberano.

Read More

Il rapporto del primo Global Stocktake: cosa si richiederà alla COP28?

By : Aldo |Ottobre 09, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Il rapporto del primo Global Stocktake: cosa si richiederà alla COP28?

Tanti paesi si sono mossi per migliorare il proprio impatto sul pianeta; eppure, c’è ancora molto da fare in questo senso. Sicuramente le varie riunioni, le assemblee globali aiutano tale cambiamento, tuttavia servono linee più rigide e molti più finanziamenti.

 

Global Stocktake

Prima di parlare della situazione in cui ci troviamo e delle linee guida proposte dall’assemblea, è necessario spiegare l’entità e la rilevanza del Global Stocktake. Si tratta di un bilancio globale, un processo per i paesi e le parti interessate (alla COP) per capire quali progressi collettivi sono in atto. Dunque, è un incontro che serve a determinare se gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, sono in fase di realizzazione o meno.

   

Considera tutto quello che riguarda la posizione del mondo sull’azione e il sostegno per il clima, per poi identificare le lacune e colmarle. Così facendo si traccia un percorso migliore per accelerare l’azione richiesta dall’assemblea e globalmente necessaria. Questo bilancio si svolge ogni cinque anni e il primo terminerà con la COP28 che si terrà dal 30 novembre a 12 dicembre a Dubai. È fondamentale ricordare che non è solo un controllo di routine, ma un un’opportunità per aumentare l’ambizione per evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico. Non è quindi la soluzione agli attuali problemi, ma la base di una risposta che faccia la differenza.

   

Secondo Stiell, nuovo segretario esecutivo dell’Unfccc, il risultato ideale di tale bilancio sarebbe una tabella di marcia. In essa dovrebbero essere inclusi dei “percorsi di soluzioni” che guidino le azioni immediate, divise per settori, regioni, attori. Il tutto per raggiungere gli obiettivi previsti entro i prossimi 7 anni.

   

Rapporto di sintesi

Per poter arrivare alla COP28 con le idee chiare, è stato creato un rapporto di sintesi. Quest’ultimo presenta una serie di misure utili a restare sotto gli 1,5°C e sarà la base dei negoziati del prossimo incontro. Il documento di 45 pagine, presenta i 17 risultati principali, i quali ci informano che non siamo sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi prefissati.

 

Attualmente siamo molto distanti dalla traiettoria giusta per rispettare la soglia di 1,5 gradi, forse l’obiettivo più ambizioso del Paris Agreement. Le analisi svolte sulla base dell’impatto collettivo di tutte le misure annunciate dagli stati nei loro Contributi Nazionali Volontari, non mostra una realtà positiva. Infatti, il calcolo afferma che nel 2100 potremmo arrivare a un aumento della temperatura di 1,7°C rispetto all’epoca pre-industriale. Tuttavia, se si considerano solo le politiche già introdotte, la traiettoria oscilla tra +2,1 e +2,9°C. Proprio per rimediare a tale situazione, il primo Global Stocktake parte dai seguenti numeri:

  • – 43% di gas serra entro il 2030,
  • – 60% entro il 2035,
  • – 84% entro il 2050, rispetto ai volumi emissivi del 2019.

Le azioni e i punti di discussione

Il rapporto tecnico (presentato dall’UNFCCC), presenta ed evidenzia le molteplici problematiche da risolvere, a seguito di vari colloqui con i Paesi partecipanti alla COP28. Di conseguenza il team di scienziati prescelto ha valutato tutte le possibili mosse per risolvere queste tematiche di interesse globale. Nella discussione ritroviamo punti e temi che sembrano non sparire mai ed altri nuovi o aggiornati (a seconda del progresso attuato in questi anni).

 

Tra questi è sempre presente e rilevante la questione dei combustibili fossili. In questo caso si chiede fermamente l’eliminazione graduale di tutte le fonti e le emissioni fossili e l’adozione di una guida per consentire tale transizione. Inoltre, si suggerisce di “accelerare l’eliminazione progressiva dei combustibili fossili unabated” (punto stabilito Cop26 di Glasgow). Per un’azione congiunta e di successo è consigliata l’eliminazione dei sussidi inefficaci ai carburanti di questo tipo nel 2025. Infine, si richiede lo stop alle esplorazioni di nuovi giacimenti fossili entro questo decennio.

   

Sul piano dei finanziamenti invece, si spinge per destinare almeno 200-400 mld $ entro il 2030 al fondo “Loss and damage”. Tale richiesta è fondamentale per garantire un equo ammontare di aiuti ai paesi vulnerabili più colpiti dalla crisi climatica. Poi ancora ci sono molteplici punti, già discussi negli anni precedenti, per i quali si richiede un maggior rigore, come nel caso del settore energetico. In tal senso si vuole fissare l’obiettivo globale di triplicare la capacità installata di rinnovabili entro il 2030 e quello di raddoppiare l’efficienza energetica.
  

È importante però ricordare che ogni punto, ogni questione va esaminata sempre tenendo conto delle differenze sociali ed economiche dei singoli paesi.

Read More

Bonus Colonnine Domestiche: in Italia stanziati 80 milioni di euro.

By : Aldo |Ottobre 05, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, energia, Home |Commenti disabilitati su Bonus Colonnine Domestiche: in Italia stanziati 80 milioni di euro.

Le vetture elettriche sono spesso tema di dibattito, perché ci si domanda sul loro reale contributo alla riduzione delle emissioni e non solo. Nonostante ciò, resta fondamentale incentivare la transizione ecologica per una maggiore sostenibilità del pianeta. Per questo in Italia arriva il bonus per le colonnine domestiche.

   

Il Bonus colonnine

Il momento tanto atteso è arrivato! Mancano pochissimi giorni e sarà possibili richiedere il bonus colonnine di ricarica auto. Un aiuto che non si limita solo ai privati ma è esteso anche ai condomìni, per favorire la sostenibilità domestica e cittadina. Si tratta di due “click day” nei quali si potrà richiedere un aiuto finanziario per l’acquisto e l’installazione di autovetture elettriche.

Con tale mossa si mette in pratica un decreto pubblicato durante la scorsa estate dal Presidente del Consiglio dei ministri. La decisione presa era quella di introdurre un contributo dell’80% per le colonnine di ricarica domestiche tra gli ecobonus per i veicoli. Dunque, parliamo di un’iniziativa che incentiva la transizione ecologica, la mobilità sostenibile e quindi la riduzione delle emissioni di CO2.

    

Come funziona

Il Governo ha stanziato 80 milioni di euro per tale progetto che prevede di coprire l’80% del prezzo di acquisto e posa per ogni domanda. Sono state designate ben 2 fasi per richiedere il bonus, tra cui la prima partirà dal 19 ottobre e terminerà il 2 novembre 2023. Il contributo rimborsa l’80% delle spese effettuate per l’acquisto e l’installazione di wallbox domestici o colonnine fino ad un massimo di €1.500 per i privati. Mentre per i progetti condominiali si arriva anche agli €8.000.
Nel prezzo sono comprese ulteriori voci quali:

  • i necessari lavori sull’impianto elettrico;
  • le opere edili strettamente collegate;
  • gli impianti e i dispositivi per il monitoraggio;
  • le spese di progettazione, direzione lavori, sicurezza e collaudi;
  • i costi per la connessione alla rete elettrica, tramite attivazione di un nuovo POD (point of delivery).

Al contrario sono escluse imposte, tasse e oneri di qualsiasi genere e le spese relative a terreni e immobili. Promotore del programma è il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che ha promesso successivi avvisi per gli interventi del 2023.

   

Requisiti, scadenze e piattaforme.

Ai fini dell’ammissibilità, le infrastrutture di ricarica devono essere:

  • nuove di fabbrica;
  • di potenza standard;
  • collocate nel territorio italiano e in aree nella piena disponibilità dei soggetti beneficiari;
  • realizzate secondo la regola d’arte ed essere dotate di dichiarazione di conformità ai sensi del decreto ministeriale n. 37/2008.

È importante ricordare che l’incentivo copre solo spese già effettuate e che prevedano sia l’acquisto che la posa, ossia l’installazione. È importante ricordare che riguarda esclusivamente gli interventi eseguiti dal 4 ottobre 2022 al 31 dicembre 2022.

  

Come per altri bonus, le domande e i relativi avvisi saranno gestiti digitalmente, sulla piattaforma online indicata dal MIMIT. Il ministero, entro novanta giorni dalla data di chiusura dello sportello pubblicherà il decreto di erogazione del Bonus Colonnine Domestiche. Il tutto nel rispetto dell’ordine cronologico di ricezione delle domande. Tuttavia, l’importo complessivamente stanziato di 80 milioni di euro, si divide a metà per le domande del 2022 e del 2023: dunque 40 milioni per anno.

Read More

Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

By : Aldo |Ottobre 03, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Dal sughero alla pelle vegana: il progetto della startup Lebiu.

Il settore tessile ha bisogno di una grande innovazione legata alla sostenibilità. Negli ultimi anni sono state sviluppate le idee più disparate per poter rendere più “verde” il settore tessile, uno dei più inquinanti al mondo.  Ecco una novità.

 

Lebiu

La startup Lebiu nasce come una realtà sarda fondata da Fabio Molinas e Alessandro Sestini. I due soci derivano da settori diversi: il primo ha studiato industrial design e poi ha fatto esperienza in accademia in Spagna dove ha vissuto 11 anni. Il secondo invece è più specializzato nell’ambito finanziario e commerciale.

  

Insieme, oltre a fondare una startup, hanno creato un nuovo tessuto composto di scarti, ma non si tratta né di plastica, né di frutta. I due hanno pensato di usare gli sfridi di sughero per rivoluzionare il campo della moda. Borse, abbigliamento e accessori, sono composti da un nuovo materiale, derivato da scarti naturali e abbinato a elementi plant-based. Questa è la descrizione dei prodotti Lebiu.

 

Il sughero nel tessile

L’idea iniziale deriva dai ricordi d’infanzia di Molinas, originario di Caragianus in Gallura, il maggiore centro di produzione di tappi di sughero dell’isola.  In quelle terre la maggior parte delle famiglie ha lavorato nell’industria del sughero, quindi il materiale, ha determinato gran parte dell’infanzia del founder, il quale racconta:

ci sono cresciuto e fin da bambino ho sempre giocato con gli sfridi, la polvere generata da questa attività”

Nelle industrie, tonnellate di materiale di scarto viene incenerito poiché solo una piccola parte viene usata per la colmatazione dei tappi più pregiati. Pertanto, dopo 11 anni in Spagna, l’expat è tornano in Italia con un’importante formazione alle spalle, un’idea innovativa e la voglia di cambiare il mondo.

 

Il progetto e il materiale.

Il progetto nasce dalle conoscenze legate ai ricordi d’infanzia di Molinas e quelle riguardanti il settore tessile.  Infatti, afferma che gli sfridi sono in realtà una vera e propria farina che spesso veniva legata con la colla. Da qui si lavorava fino a renderla una sorta di plastilina da modellare dopo un passaggio in forno. Quindi l’idea c’era, il materiale pure e in abbondanza, mancava solo la realizzazione del nuovo prodotto che necessitava di fondi. A questo ci pensò la Commissione Europea che riconobbe un programma di incentivi dedicato alle industrie creative capaci di ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile.

 

Corskin

Il prodotto su cui converge tutto: una specie di simil pelle (al tocco) costituita da un alto contenuto di particelle di sughero. Queste ultime sono accompagnate da resine plant-based provenienti da coltivazioni OGM-Free e da campi non sottratti all’agricoltura per l’alimentazione. Si tratta di un tessuto resistente alla corrosione, impermeabile e personalizzabile con varie texture e finissaggi. In aggiunta, impedisce la formazione di muffe, per mezzo delle cere e dei tannini presenti nella biomassa, è durevole, non scolorisce ed è elastico. Infine, l’aumento dello spessore non incide sul suo peso, come invece avviene con altri materiali tecnici o naturali. L’unica pecca riguarda la lavorazione che attualmente elimina ogni profumo e odore ma la squadra è già alla ricerca di una soluzione.

Tale materiale nasce dalla combinazione di collanti alimentari che si impiegano per quelli conglomerati. Successivamente, grazie alla collaborazione con imprese specializzate in spalmati sintetici e tessili del nord Italia, la startup ha raggiunto il suo obiettivo, una struttura multistrato. Senza dubbio, Corskin è una valida alternativa che riduce l’impatto ambientale.

   

Nanocork

Attualmente è una linea secondaria dell’impresa. È un finissaggio naturale applicabile sui capi di aziende terze grazie a un processo di micronizzazione delle particelle di sughero e acqua. Questo materiale consente di risparmiare fino al 90% di acqua, prodotti chimici, ed energia e di distinguere il tessuto dagli altri. Per esempio, aumenta le prestazioni del capo in termini di isolamento termico e antistaticità ed ha un effetto naturalmente invecchiato. Quest’ultima caratteristica deriva dall’uso un pigmento naturale abbinato a sfridi, acqua e altri componenti, nebulizzato in ambiente controllato su tessuti.

Tali processi sono molto più sostenibili poiché generalmente la tintura di una maglietta comporta l’utilizzo di grandi quantità d’acqua: dai 60 ai 100 litri. Mentre con Nanocork per ogni chilo di vestiti ne basta solo un litro e mezzo.

   

Lebiu ha quindi creato dei prodotti che hanno un impatto ambientale è molto ridotto. Anche perchè si basa su una filiera di produzione controllata con certificazioni GRS (Global Recycled Standard) e USDA per il contenuto Bio-based. Valore che può variare a seconda dei prodotti, da un 45% a un 80%, con l’obiettivo di raggiungere il 95%. Con tali procedimenti e secondo le stime della società, per ogni metro di Corskin si evita l’immissione di 4,5 kg di CO2 in atmosfera.

  

Il prezzo è in linea con i tessuti di fascia medio-alta ma anche per la fascia premium degli alberghi e per l’arredamento.
Dunque, Lebiu è una realtà che ha fatto di una polvere di scarto, un tessuto di alto valore ma di basso impatto ambientale. Le vie per migliorare la nostra impronta sul pianeta sono migliaia, basta solo percorrerle nel modo e con i tempi più adeguati.

Read More

Rendere verdi i deserti catturando la CO2: ecco il nuovo studio.

By : Aldo |Ottobre 02, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Rendere verdi i deserti catturando la CO2: ecco il nuovo studio.

La CO2 nelle vare sfere della Terra è presente in quantità elevate che bisogna ridurre. Gli studi in questo verso continuano: le idee sono tante e varie ma è necessario poterle mettere in pratica. Ecco un esempio.

    

La situazione odierna

Le emissioni nette di CO2 devono essere ridotte a zero entro 10 anni per raggiungere la neutralità climatica. Tale processo al momento sembra impossibile, soprattutto per le migliaia di attività che si sviluppano quotidianamente e che emettono CO2. Tuttavia, gli effetti climatici correlati all’elevata concentrazione di CO2 atmosferica rimarranno irreversibili per almeno 1000 anni.

   

Gli studi, le innovazioni e i progetti per ridurre le emissioni sono tantissimi, vari e di origine diversa. Per esempio, si possono migliorare o rinnovare i processi produttivi di molteplici oggetti. Si può riciclare una grande quantità di rifiuti oppure ridurre ed eliminare la produzione e il consumo di certi materiali.  O ancora sono stati ideati svariati sistemi per catturare la CO2, sia naturali che artificiali con l’obiettivo di poter ridurre la sua concentrazione nelle varie sfere.   In questo caso, lo studio parla delle terre aride dei deserti come possibili centri di stock dell’anidride carbonica nel futuro.
    

L’idea della ricerca

L’idea nasce da uno specifico studio dei deserti e delle poche e particolari piante che li abitano. E chi poteva parlarne meglio di un gruppo di scienziati della King Abdullah University of Science and Technology (Arabia Saudita)? Il team guidato da Heribert Hirt, professore di scienze vegetali e membro del Centre for Desert Agriculture è pronto a mettere in pratica la loro ricerca.

  

Il concetto è quello di sfruttare la capacità delle piante di sequestrare il carbonio dall’atmosfera attraverso il processo di fotosintesi.  Nello specifico la ricerca si è concentrata sui deserti, in modo da non sottrarre terreno al settore agricolo (una procedura fin troppo sviluppata e dannosa). Non a caso un terzo della superficie terrestre del nostro pianeta è terra arida che non viene utilizzata per l’agricoltura ed è soggetta. In tal modo potremmo catturare la CO2, rendendo “verdi” i deserti. Lo studio e i suoi dati sono stati appena pubblicati nella forma di opinion paper sulla rivista scientifica Trends in Plant Sciences. 

  

Rendere verdi i deserti

Dunque, gli autori hanno pensato di non usare le aree verdi già presenti ma di creare delle piccole isole nel deserto, incrementando dei processi naturali.

Per sviluppare l’esperimento, gli scienziati hanno scelto un tipo di pianta capace di sopravvivere a condizioni di temperatura elevata e di carenza idrica. Standard tipici delle aree desertiche, ai quali sopravvivono le piante “ossalogeniche”. Quest’ultime sono in grado di immagazzinare il carbonio che sequestrano dalla CO2 atmosferica sotto forma di cristalli di ossalato di calcio. Si tratta di un sale costituito da calcio, carbonio e ossigeno, che in caso di necessità può essere riconvertito in acqua e CO2.

Tali piante sono state affiancate da microrganismi che accelerano questo processo. Grazie alla loro azione, parte dei cristalli di ossalato (prodotti dalla pianta) vengono convertiti in carbonato di calcio. Questo sale è la principale forma di immagazzinamento di carbonio all’interno del suolo, quindi la soluzione perfetta per la rimozione di CO2 dall’atmosfera.  Una procedura tipica delle zone aride, dove il pH del terreno e le elevate concentrazioni di calcio sono ottimali per la formazione dei carbonati. Si tratta di un processo di trasformazione che avviene anche negli strati profondi del terreno, meno soggetti a cambiamenti di:

  • temperatura dell’aria;
  • concentrazione atmosferica di CO2;
  • l’utilizzo del suolo per scopi antropici.

Il sistema di immagazzinamento determina la formazione di enormi depositi di carbonato di calcio nel terreno che rimangono stabili anche per centinaia di anni. Ed è proprio questo il ciclo che ha interessato i ricercatori. Perchè così facendo, si può fissare stabilmente il carbonio contenuto nella CO2, riducendone ampiamente la sua concentrazione atmosferica.

Questo è l’obiettivo dello studio: tagliare la quantità di CO2 attualmente presente nell’atmosfera in tempi relativamente brevi, potenzialmente anche in meno di dieci anni.

    

La prova

Attualmente gli autori suggeriscono di partire da quelle che loro definiscono “piccole isole fertili”. Ossia scegliere piccole aree nelle quali far crescere le piante ossalogeniche, che nel futuro potrebbero espandersi autonomamente a formare dei grandi “tappeti verdi” nel deserto. Ovviamente l’efficienza del progetto e i suoi risultati dipenderanno anche delle strategie politiche adottate e dei fondi investiti in questo senso.

Read More

“Pulci d’acqua” per migliorare per la depurazione delle acque reflue.

By : Aldo |Settembre 28, 2023 |Arte sostenibile, Emissioni, Home, mare |Commenti disabilitati su “Pulci d’acqua” per migliorare per la depurazione delle acque reflue.

Il nostro pianeta gode di un’immensa biodiversità di specie animali e vegetali, con caratteristiche pazzesce spesso straordinarie.

E proprio grazie a tali qualità e alla ricerca, queste specie possono venire in nostro soccorso in molteplici ambiti e in varie modalità.ù

    

La depurazione delle acque reflue

Il processo di depurazione delle acque reflue è un’operazione complessa ma necessaria, per la salute di ogni popolazione e del territorio. É un’attività che si sviluppa per mezzo di una combinazione di trattamenti meccanici, chimici e biologici con l’obiettivo di rimuovere gli inquinanti dall’ acqua di scarico. In tal modo è possibile renderla abbastanza pulita da poter essere rilasciata nel suolo o nei corpi idrici senza danneggiare l’ambiente.

   

In Italia, La depurazione delle acque reflue come la intendiamo oggi si è diffusa dagli anni ’70. In quel periodo venne affrontato con particolare attenzione il tema e venne istituita la legge Merli (legge 319 del 1976). Quest’ultima, fu una mossa fondamentale, poiché vennero stabilite le concentrazioni limite dei parametri delle acque di scarico.

   

Solitamente distinguiamo due fondamentali tipologie di acque di scarico: gli scarichi civili e gli scarichi industriali. I primi, detti anche acque reflue urbane comprendono le acque di rifiuto domestico e le acque di ruscellamento, ossia l’acqua che finisce nei tombini stradali. Mentre i reflui industriali includono acque di scarto e la tipologia di inquinanti presenti varia a seconda del processo industriale utilizzato. Non a caso alcune attività (lavanderie industriali, cantine vinicole, industrie chimiche) sono obbligate trattare preventivamente le loro acque reflue.

    

La novità

È chiaro che il depuratore sia un importante mezzo per la salubrità di ogni cittadina. Tuttavia, per la sua funzione occupa ancora tanto spazio e in alcuni casi, se poco efficiente, potrebbe non filtrare alla perfezione. Pertanto, come qualsiasi tecnologia, sono ancora in corso degli studi per migliorare e rendere sempre più efficienti questi sistemi fondamentali.

Tra i vari casi, oggi si parla di una depurazione delle acque reflue, più specifica grazie all’introduzione di “pulci d’acqua”. Si parla dell’esperimento dell’Università di Birmingham, svolto da una squadra che ha dimostrato impressionanti capacità di depurazione delle acque reflue.

L’esito positivo dell’esperimento fa pensare che possano essere impiegate in tanti ambiti o semplicemente, possano essere introdotte in più depuratori. Si tratta di una soluzione più che ecologica, visto che per la loro attività non verrà consumata energia in più e non ci saranno ulteriori emissioni.

    

Le “pulci d’acqua”

Non si tratta pulci, ma di un gruppo di oltre 450 specie di minuscoli crostacei che vivono dentro laghi, stagni, ruscelli e fiumi. Gli individui del genere Daphnia sono organismi che filtrano il cibo, ingerendo eventuali piccole particelle di detriti, alghe o batteri nel processo. Vista la loro propensione a filtrare di tutto, sono stati selezionati per l’esame. Gli studiosi hanno pensato che probabilmente avrebbero potuto ingerire anche qualcosa di peggio, come sostanze chimiche tossiche.

  

L’introduzione di questa specie nel processo di trattamento deriva dalla problematica per la quale gli impianti di trattamento non siano così efficienti. Tali sistemi oggi non rimuovono tutti i contaminanti, anzi molti sfuggono ai filtri dei depuratori, e tornano nell’ambiente, danneggiando noi e la natura.

   

Così sono stati selezionati embrioni dormienti recuperati sul fondo dei fiumi: nello specifico ceppi dal 1900, 1960, 1980 e 2015.  Arrivati in laboratorio, hanno cresciuto le popolazioni di pulci clonando e testato il loro patrimonio genetico e le loro capacità di sopravvivenza. Successivamente hanno testato le capacità di aspirazione, prima in acquario, poi in 100 litri d’acqua, poi in un impianto da oltre 2.000 litri. I risultati strabilianti hanno portato alla scoperta di caratteristiche specifiche della specie.

   

I risultati

Gli inquinanti presenti nelle acque, che preoccupano maggiormente gli operatori sanitari sono

  • Diclofenac, farmaco;
  • Atrazina, pesticida;
  • Arsenico, metallo pesante;
  • PFOS, prodotto chimico industriale, impermeabilizzare i vestiti.

Ricordiamo che alcuni embrioni scelti, si erano depositati in periodi in cui le sostanze inquinanti erano più diffuse. Mentre altri erano più “ingenui”, poiché originarie di periodi in cui i contaminanti erano assenti (come nel 1900).

Quindi erano possibili vari esiti, ma hanno prevalso quelli positivi, al punto che Karl Dearn co-autore dello studio afferma:

 

Abbiamo sviluppato il nostro bioequivalente di un aspirapolvere Dyson per le acque reflue, che è molto, molto emozionante”

Infatti le pulci d’acqua sono state in grado di assorbire il 90% del diclofenac, il 60% dell’arsenico, il 59% dell’atrazina e il 50% del PFOS. L’ultima percentuale, per quanto fosse la minore rispetto alle altre, determina una scoperta rilevante e una specifica caratteristica della specie. Luisa Orsini co-autrice dello studio dichiara che tale rimozione è eccellente rispetto a ciò che esiste ora. Questo perchè perché nulla rimuove o metabolizza i PFOS in questo modo, e altri sistemi sono estremamente costosi, e producono molti sottoprodotti tossici.

 

La nuova tecnica è efficiente anche perchè le pulci sono autosufficienti (si riproducono per clonazione) e si autoregolano. Ossia aumentano o riducono la popolazione a seconda dei nutrienti disponibili. Inoltre, data la loro adattabilità, le pulci potrebbero essere impiegate in tanti altri tipi di sistema. Senza contare il fatto che si tratta di un agente economico e privo di emissioni di carbonio, potrebbe trattarsi di una soluzione sofisticata.  O comunque potrebbe essere usata per impianti di trattamento delle acque e nei paesi in via di sviluppo con meno infrastrutture

Read More

Arriva il Cinema In Verde all’Orto Botanico di Roma.

By : Aldo |Settembre 26, 2023 |Arte sostenibile, Clima, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Arriva il Cinema In Verde all’Orto Botanico di Roma.

Temi come la cura dell’ambiente, la sostenibilità e la sensibilizzazione dei cittadini sono sempre più citati e intrapresi in vari ambiti.
Sicuramente se ne parla a scuola, in politica, sul web ed ora anche in una rassegna cinematografica.

   

Cinema In Verde

A fine settembre si svolgerà il primo festival di cinema ambientale a Roma. Un’occasione unica per raccontare la difesa dell’ambiente e della natura attraverso film e tante altre attività ad essi correlate. Il principio è proprio quello di far aprire gli occhi con storie di inchiesta, di presa di coscienza, di ecosistemi che resistono.

   

L’iniziativa avrà luogo, in posto magico quale l’Orto Botanico di Roma, (Polo Museale della Sapienza) culla di biodiversità, istruzione e sensibilizzazione. La prima Università di Roma e Silverback (agenzia di comunicazione green) si affiancheranno in questa nuova avventura all’insegna del cinema “verde”.

   

L’evento che avrà inizio venerdì 28 settembre e terminerà domenica 1° ottobre, sarà promosso dall’Assessorato all’agricoltura, all’ambiente e al ciclo dei rifiuti. Mentre sarà patrocinato dall’Assessorato alla Cultura e dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. Il Cinema In Verde è organizzato in collaborazione con FilmAffair, Zen2030 e Green Influencer Club, food partner Punto Mobile.

    

La sensibilizzazione

L’evento è stato definito “carbon neutral” grazie al lavoro svolto dalla società benefit Zen2030. Infatti, durante il festival, i consumi di molteplici ambiti saranno monitorati, registrati e tradotti in emissioni di CO₂eq. Si parla di consumi legati alle categorie energia, mobilità, trasporti, ristorazione, materiali, alloggi e rifiuti.

   

Oltre al monitoraggio e alla rendicontazione saranno attuate altre forme di compensazione e attenzione nei confronti dell’ambiente:

  • l’energia usata deriverà dalla rete elettrica dell’Orto Botanico che proviene da fonti rinnovabili;
  • verrà incentivato l’uso di mezzi sostenibili per l’arrivo al festival (mezzi pubblici, bicicletta, mobilità elettrica e condivisa). E per i partecipanti internazionali è stato consigliato il treno piuttosto che l’aereo;
  • é stata adottata una politica plastic free preferendo materiali a consumo a minor impatto ambientale. Molti materiali sono stati noleggiati e sono stati scelti fornitori locali, provenienti da Roma e dal Lazio;
  • l’offerta di ristoro è prevalentemente vegetariana, con coperti lavabili o totalmente compostabili;
  • a chiusura dell’evento le emissioni residue, ovvero quelle che non sarà stato possibile evitare, saranno compensate attraverso progetti certificati legati alla transizione energetica verso fonti rinnovabili.

Il festival

Per quanto riguarda la rassegna cinematografica, si prevede la proiezione di sei pellicole d’autore, all’interno di un’arena interna e una esterna. Tali film sono destinati a un pubblico vasto ed hanno come trama principale una storia godibile e interessante con un significato ambientale. Tuttavia, l’evento non consisterà nella sola visione di film, ma anche allo sviluppo di varie attività connesse ai due temi in esame.

   

Pertanto, è prevista una rassegna di film già usciti in sala che hanno risvegliato la nostra attenzione sui temi ambientali. Successivamente si affronteranno dibattiti a cui parteciperanno personaggi dello spettacolo come Paolo Virzì, Claudia Gerini, Andrea Pennacchi e della ricerca.

     

I sei film in concorso sono:

  • GREEN TIDE, di Pierre Jolivet;
  • THE DAM, di Ali Cherri;
  • THE HORIZON, di Emilie Carpentier;
  • AND THE BIRDS RAINED DOWN, di Louise Archambault;
  • PLUTO, di Renzo Carbonera;
  • BEATING SUN, di Philippe Petit.

La giuria sarà composta da

  • Laura Delli Colli, giornalista e scrittrice;
  • Thony, attrice e cantautrice;
  • Andrea Grieco, divulgatore e attivista;
  • Rossella Muroni, Nuove Ri-Generazioni;
  • Claudia Campanelli, giornalista e autrice;

Inoltre, sono stati organizzati workshop ogni mattina per capire come si pensa e si realizza un documentario ambientale. E come alla fine di ogni festival o concorso che si rispetti, il vincitore riceverà il primo premio Ginkgo d’oro. L’iniziativa consente così di veicolare dei messaggi fondamentali, di dare varie e nuovi spunti di riflessione sul tema e incrementare la sensibilizzazione. Non a caso, la citazione del regista Ingmar Bergman, scelta per questa iniziativa racchiude tutta l’anima del festival:

  

Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”

Read More

Vittoria storica per gli indigeni del Brasile: “No al Marco Temporal”.

By : Aldo |Settembre 25, 2023 |Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Vittoria storica per gli indigeni del Brasile: “No al Marco Temporal”.

Gli indigeni nel mondo combattono da anni per vedere i propri diritti rappresentati o rispettati, andando contro i governi di molteplici nazioni.

In Amazzonia, negli ultimi anni si sono battute tantissime popolazioni che, fortunatamente, sono riuscite a cambiare il corso della storia.

    

Il Marco Temporal

Il Marco Temporal (o Limite Temporale) è una proposta di legge che avrebbe favorito (secondo le popolazioni indigene) un “genocidio legalizzato”. Si tratta di un disegno che puntava tutto sulla promozione della sostenibilità occidentale per sfruttare le terre dell’Amazzonia e le sue risorse. Il tutto senza rispettare i diritti e in generale le popolazioni indigene che senza dubbio sarebbero state sterminate.

   

L’interesse era legato a materie come il “litio verde”, le terre rare, l’oro, il petrolio, il legno, la soia e la carne. L’estrazione o la produzione di queste materie danneggia da anni le riserve indigene e la legge avrebbe solamente accelerato tale devastazione. In più la legge avrebbe la cancellato le richieste in sospeso, per il riconoscimento delle riserve e autorizzato l’accesso deliberato alla foresta. E per non farsi mancare nulla avrebbe limitato il potere del Ministero dei Popoli Indigeni e del Ministero dell’Ambiente. Così facendo avrebbe messo in pericolo risorse fondamentali come l’acqua e le foreste e la vita stessa delle popolazioni indigene.

   

Pertanto una legge simile non avrebbe rispettato punti fondamentali della costituzione a favore del business, mettendo in pericolo migliaia di persone.

    

La lotta degli indigeni

Le comunità indigene, i popoli che abitano l’amazzonia si sono ribellati sin da subito a quest disegno di legge. Le novità previste da quest’ultima non erano altro che modi con cui la nazione avrebbe potuto fare quello che più le interessava con il polmone verde. Mettendo così in pericolo intere popolazioni, molte delle quali non hanno quasi alcun contatto con il mondo esterno. Potremmo dire che contrastare la sua approvazione era letteralmente questione di vita o di morte per gli abitanti della foresta.

   

La legge introduceva dei vincoli che determinavano l’impossibilità di istituire riserve protette sulle aree dove gli indigeni non erano presenti alla data del 5 ottobre 1988. Data in cui entrò in vigore l’attuale costituzione. Anche se il il giudice della Corte Suprema Edson Fachin ricorda che:

 

… i diritti territoriali indigeni sono riconosciuti dalla Costituzione, ma preesistono alla promulgazione della Costituzione stessa”.

 

Inoltre, non avrebbero potuto essere demarcate, ovvero mappate, quindi riconosciute come zone su cui insistono dei diritti dei popoli nativi. In tal modo la nazione era libera di violare i diritti dei popoli indigeni, approfittando della loro instabilità, instaurata dallo Stato stesso. Questo perchè in molti erano stati costretti a lasciare le loro terre ancestrali da politiche statali, durante la dittatura militare tra gli anni ’60 e ’80. Per tale motivo, gli indigeni si battono da anni per l’istituzione e la promozione di riserve naturali e aree protette. Sono l’unico modo con il quale riuscirebbero a bloccare lo sfruttamento delle loro terre da parte delle multinazionali dell’allevamento, del disboscamento e dell’estrazione mineraria.

   

Fortunatamente, con forza e determinazione, i popoli della foresta sono riusciti (con le loro proteste e i loro appelli) a cambiare la rotta di questo processo.

   

Verso la vittoria

Prima ancora che la legge fosse approvata alla Camera, i rappresentanti delle popolazioni indigene hanno organizzato delle manifestazioni contro il governo. Per esempio, a San Paolo hanno bloccato l’autostrada e dato fuoco a pneumatici, per poi usare archi e frecce contro la polizia.  Oppure gruppi di nativi indigeni di tutto il paese hanno programmato una settimana di proteste davanti al Congresso nella capitale Brasilia.  Mentre il cacique (cioè il capo tribale) Raoni Metuktire, ha presentato una petizione contro le restrizioni alla demarcazione delle terre dei nativi.

   

Tutto questo, il cambio di governo e forse una maggiore sensibilizzazione al tema hanno portato alla grande vittoria. Così, la legge proposta durante il governo Bolsonaro è stata bloccata e rispedita al mittente pochi giorni fa. La procedura durata due anni è finita con una vittoria netta per popoli indigeni e attivisti ambientali. Nello specifico 9 degli 11 giudici della Corte Suprema si sono dichiarati contrari ad approvare il Marco Temporal.

 

Fiona Watson di Survival International ha dichiarato:

 

È una vittoria storica, cruciale per i popoli indigeni del Brasile e una grande sconfitta per la lobby dell’agrobusiness”.

 

Il Marco Temporal era uno stratagemma pensato per legalizzare il furto di milioni di ettari di terra indigena. Se fosse stato approvato, decine di popoli ne sarebbero usciti devastati – come migliaia di Guarani e i Kawahiva incontattati”.

Read More

L’isola di Arholma è autonoma grazie ad un sistema di accumulo energetico italiano.

By : Aldo |Settembre 22, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, energia, Home |Commenti disabilitati su L’isola di Arholma è autonoma grazie ad un sistema di accumulo energetico italiano.

Si sa che il Made in Italy, per quanto dimentica in certi ambiti, resta sempre una cifra di stile, bontà del prodotto e sicurezza. Quello esportato gode di una certa fama e con il passare del tempo si fa strada anche nel settore energetico, grazie a studi e innovazioni.

 

Il marchigiano in Svezia

In Svezia, una piccola striscia di terra nel nord-est dell’arcipelago di Stoccolma, chiamata Arholma è diventata autonoma grazie ad un sistema italiano. Arholma è oggi energeticamente autonoma, per via della collaborazione tra l’azienda marchigiana Loccioni e la società svedese “Vattenfall Eldistribución”.

La prima è un’impresa nata nel 1968 come un progetto che integra idee, persone e tecnologie, che lavora per il benessere della persona e del pianeta. Nello specifico si occupa di realizzare sistemi di misura e controllo per migliorare la qualità, la sicurezza e la sostenibilità di processi e prodotti industriali. La seconda invece è una delle maggiori società svedesi produttrice di energia elettrica, venduta anche per Danimarca, Finlandia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito.

Tale collaborazione ha reso possibile la realizzazione un prototipo che aiuti concretamente la piccola isola nei momenti di necessità.

    

Arholma

Si parla di una striscia di terra lunga 5 chilometri e larga 2 chilometri ed è l’isola più settentrionale dell’arcipelago prima del mare delle Åland. É caratteristica per la pittoresca combinazione di edifici tradizionali in legno, terreni agricoli, foreste e coste rocciose, motivo per cui è affollata durante l’estate. Nel 1963 Skärgårdsstiftelsen (la Fondazione Arcipelago) ha avviato un programma di conservazione della natura su Arholma. Pertanto, una vasta area comprese delle isole limitrofi sono parte di una riserva naturale, nella quale sono conservate anche metodi tradizionali si silvicultura e agricoltura.

    

L’istituzione di un’area protetta definisce l’importanza dell’ambiente nell’area che tuttavia in estate diventa una meta turistica gettonata. Appunto l’isola ha una popolazione di circa 70 persone che aumentano in estate toccando le 600. Proprio questa è una delle ragioni principali della costruzione del sistema. Infatti il prototipo prevede la fornitura di un sistema di accumulo energetico capace di sostenere carichi eccessivi, molto comuni durante l’estate. Oppure per interruzioni improvvise delle forniture, come durante forti temporali. La possibilità deriva dal fatto che il sistema energetico della microrete consente di interfacciarsi con la rete elettrica esistente sull’isola.

   

La microrete

Dunque, il sistema in esame è una smart microgrid, un sistema energetico intelligente su piccola scala per fornire energia in tutto il mondo. Nel caso specifico, la microrete dell’isola è stata realizzata ad Ancona tramite la cooperazione di entrambi gli enti. Il sistema è collegato a 2 batterie di accumulo, pronte a immagazzinare energia quando arriva quella elettrica dalla terraferma. Queste garantiscono l’approvvigionamento elettrico dell’isola per più di due ore. Ma è anche collegato ad un impianto fotovoltaico, che produce energia; di conseguenza il meccanismo ne accumulerà per via dei sistemi di accumulo. Successivamente verrà distribuita alla popolazione locale e poi la esporterà.

   

La CEO di Vattenfall Eldistribution AB, Annika Viklund afferma che il progetto ha lo scopo di capire come le microreti interagiscono con la rete principale. Una volta studiato tale processo, l’azienda valuterà se questi sistemi possono essere utilizzati in una circostanza più ampia, per soddisfare altre necessità della rete. Così facendo potrebbero garantire una risposta efficiente, ad una elevata richiesta della rete elettrica e una maggiore qualità dell’offerta locale.

     

Loccioni in Italia e in Svezia

Tuttavia non si tratta nè della prima opera dell’azienda marchigiana, nè del primo progetto in collaborazione con la Svezia. Un esempio di sistemi energetici di micro-rete mirati alla completa autonomia energetica è quello realizzato lungo il fiume Esino (Marche), nominato “Due chilometri di futuro”.

  

Mentre in Svezia, Loccioni, ha inaugurato la prima isola energetica della Scandinavia, precisamente a Simris (costa sud ovest). Anche in questo caso il progetto è frutto di una collaborazione con LES, Local Energy System, ed EO.N, il colosso tedesco dell’energia. Grazie a tale lavoro, l’energia che alimenterà la cittadina sul mare sarà esclusivamente prodotta in loco, rinnovabile, senza emissioni di CO2 e disponibile al bisogno. Ad oggi invece, lo smart microgrid di Arholma è considerato un progetto pilota.

Read More

L’UE ha perso 15 mila km di binari e questo è un problema per l’ambiente.

By : Aldo |Settembre 19, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su L’UE ha perso 15 mila km di binari e questo è un problema per l’ambiente.

Tante tecnologie e innovazioni ci aiutano quotidianamente per ridurre il nostro impatto sulla Terra.

Eppure, ci sono processi molto semplici che non vengono portati avanti che invece cambierebbero di gran lunga la nostra presenza nel mondo.

    

L’importanza dei trasporti pubblici

Secondo il sito per le statistiche sul cambiamento climatico, OurWorldinData, il settore dei trasporti contribuiva al 16,2% delle emissioni su scala globale nel 2016. Questa è una cifra non indifferente, non a caso il settore è considerato come una delle principali cause della crisi climatica in atto. Per quanto riportato dall’ EEA (Agenzia Europea dell’Ambiente) oggi quasi 72% delle emissioni legate a questo settore proviene dai veicoli a motore. Di seguito troviamo il trasporto aereo con il 13.9% e quello marittimo con il 13.4%, mentre quello ferroviario rappresenta solo l’1%.

   

Gli studi correlati a tale monitoraggio rivelano che le emissioni dovute ai trasporti hanno segnato un costante incremento dal 1990. Poi nel 2007 si toccò il tetto massimo mai raggiunto di 1 milione e centomila tonnellate di CO2 equivalente, per poi raggiungere il minimo nel 2013. Purtroppo le proiezioni dell’EEA, descrivono un nuovo incremento, ovvero che nel 2030 le emissioni legate ai trasporti si assesteranno alla quota del 2007.  Tuttavia, questo numero rappresenterà un aumento del 32% rispetto ai livelli registrati nel 1990 complicando la corsa alla neutralità climatica fissata dall’Unione entro il 2050.

    

Perchè non usiamo i mezzi pubblici?

Come descritto nel paragrafo precedente, il trasporto ferroviario è quello che produce meno emissioni, dunque sarebbe il più sostenibile.

In generale i mezzi di trasporto pubblici come autobus, tram e treni sono sempre la scelta giusta per ridurre la propria impronta di carbonio sul mondo. Peccato però che non sono sviluppati bene in tutto il mondo, o nello specifico in Italia. Forse è anche per questo che si preferiscono altri mezzi a quelli appena citati, anche se consapevoli di favorire un maggior inquinamento. L’altro dilemma è la mancanza di finanziamenti per la manutenzione delle strutture ferroviarie.

  

Questo è un problema europeo ed è stato studiato dal Greenpeace Europa centro-orientale (CEE) al Wuppertal Institut e al T3 Transportation Think Tank. La questione venne sollevata già nel 1995, quando vennero presi i primi impegni globali per ridurre le emissioni di gas serra. Da quell’anno, i Paesi europei hanno investito per ampliare e ripristinare la rete stradale il 66% in più di quanto abbiano speso per la rete ferroviaria. Si tratta di ben 1.500 miliardi di euro per le infrastrutture stradali e solo 930 miliardi di euro per quelle ferroviarie. Tale scelta, anche in maniera indiretta ha incentivato il trasporto privato quindi con automobili, furgoni e camion per il trasporto merci e ciclomotori. Mezzi che emettono rispettivamente 42, 68 e 72 g CO2/ Km.

     

Le ferrovie europee

Come conseguenza, dal 1995 sono stati costruiti più di 30 mila km di autostrade, mentre le ferrovie sono state ridotte del 6,5%. Tali processi hanno determinato una perdita complessiva di 15 mila km di linee ferroviarie, di cui:

  • 13 mila km di linee ferroviarie, maggiormente regionali
  • 600 fermate e stazioni di treni sono state chiuse penalizzando le comunità delle aree rurali.

Ovviamente l’Italia non presenta dati differenti da quelli europei. Secondo i dati, dal 1995 al 2018 il nostro Paese ha investito il 28% in più sulle strade che sulle ferrovie.

   

Le cifre? 151 miliardi per le prime e 118 miliardi di euro per le seconde. E per quanto riguarda le perdite? Dal 1995 sono state chiuse 40 linee ferroviarie per un totale di più di 1.800 chilometri, che sono facilmente ripristinabili perchè non smantellate. Tutte queste situazioni ovviamente fanno sì che le autostrade vengano usate maggiormente, creando i soliti ingorghi stradali che aumentano il livello di inquinamento. Contemporaneamente, le persone che vivono in aree rurali senza ferrovie, sono costrette ad usare le automobili per ogni spostamento.

   

Questa serie di azioni ha determinato un aumento delle emissioni nel settore dei trasporti, del 15% fra il 1995 e il 2019. Per tale motivo Greenpeace chiede ai governi europei, di spostare i finanziamenti dalla strada alla ferrovia. Così da migliorare le condizioni delle infrastrutture, potenziando quelle regionali e incentivare gli spostamenti con i mezzi pubblici.

Read More