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Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

By : Aldo |Febbraio 04, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Farina di grillo: la prima azienda italiana autorizzata alla produzione e al commercio.

La fame nel mondo, le nuove diete, la sostenibilità hanno portato alla ricerca di nuove soluzioni regolare la crescita demografica del pianeta. Le prime innovazioni su questo fronte stanno arrivando ma non tutte sono accolte positivamente dalle popolazioni mondiali. Una delle più discusse è legata all’utilizzo di insetti nell’alimentazione.

Le proteine del futuro

Da anni si discute di come affrontare la crescita demografica e quindi di come sfamare 8 milioni di persone sulla terra. Soprattutto, si deve ragionare in funzione di uno stock limitato di risorse e quindi con la necessità di massimizzare la resa. Per questa ragione si parla ormai da anni, di un futuro in cui i popoli si alimentano con particolari prodotti, come per esempio gli insetti.

  

La scelta di introdurre gli insetti non è recente per alcune popolazioni del mondo ma di certo è una novità per le popolazioni “occidentali”. A proposito, la FAO afferma che si consumano già 1900 specie diverse di insetti, quindi i passi che stiamo muovendo sono effettivamente una novità solo per alcuni.  Nonostante ciò, molti non condividono o si chiedono ancora le ragioni per cui procedere con la consumazione dei nuovi alimenti e i loro derivati.

   

Gli insetti possono piacere o meno, ma è scientificamente provato che siano ricchi di proteine e nutrienti e cosa più importante: sono tantissimi sul pianeta. Inoltre, il loro allevamento non produce neanche l’1% di emissioni e dunque sono un’alternativa ideale alla dieta tradizionale. La loro introduzione nel settore alimentare contribuirebbe positivamente ad un ambiente più sostenibile e sano. Precisamente, potrebbero contrastare problemi quali:

  • l’aumento del costo delle proteine animali;
  • l’insicurezza alimentare;
  • le pressioni ambientali;
  • la crescita demografica;
  • l’aumento della domanda di proteine presso le classi medie.

In Europa

In Europa è entrato in vigore il primo regolamento 258/97, relativo ai “nuovi alimenti” il 15 maggio 1997. Con tale norma si definisce qualsiasi prodotto alimentare che non sia stato consumato ampiamente nell’UE. Ma solo di recente (1° giugno 2021), la Commissione Europea ha adottato il regolamento sui “nuovi alimenti”. Tale passo è stato possibile grazie a una scrupolosa valutazione scientifica (effettuata dall’EFSA) sulla sicurezza alimentare di questi cibi. Dopodiché è stata approvata la loro introduzione sul mercato UE.

     

È bene ricordare che, parlando di insetti, l’UE, ha approvato l’introduzione del tenebrione mugnaio giallo. L’insetto è stato valutato dall’EFSA ed è soggetto alle norme UE che disciplinano l’etichettatura degli allergeni. Ossia di un elenco di 14 ingredienti che devono essere chiaramente segnalati sull’etichetta, come uova, latte, pesce, crostacei ed ora anche gli insetti. In particolare, è stato riconosciuto che il consumo del tenebrione mugnaio giallo può provocare reazioni allergiche specialmente a chi è allergico o intollerante ai crostacei e agli acari della polvere.

  

Nei mesi successivi al regolamento sono arrivate anche richieste per autorizzare anche il consumo di altre varietà, come:

  • l’Alphitobius diaperinus larve (tenebrione mugnaio minore);
  • Gryllodes sigillatus (grillo domestico tropicale);
  • l’Acheta domesticus (grillo domestico);
  • Locusta migratoria;
  • Hermetia illucens (mosca soldato nero).

Ovviamente anche per queste sarà necessaria la valutazione di sicurezza da parte dell’EFSA per l’autorizzazione al commercio. Sebbene si tratti di un tema controverso per alcuni e di una svolta per altri, l’Italia ha sorpreso tutti in questo ambito. Infatti, ha autorizzato la prima azienda italiana a produrre e vendere alimenti a base di insetti.

  

Nutrinsect

Nutrinsect è (per ora) la prima ed unica azienda italiana autorizzata alla produzione, trasformazione e commercializzazione della farina di grillo per alimentazione umana. La società marchigiana con sede in provincia di Macerata dopo due anni di attesa potrà distribuire la farina liofilizzata di grilli, definita “polvere sgrassata di acheta domesticus”.  La storia del gruppo racconta come cambiano le necessità nel tempo e le idee innovative che sono alla base della svolta sostenibile. Nel 2011 Jose Cianni, fondatore e ceo dell’azienda, si interessa alla questione e decide di puntare su questa nuova frontiera ancora sconosciuta. La sua scelta è coraggiosa anche perché deriva da una famiglia di allevatori tradizionali, quindi ha continuato sulla stessa linea, cambiando materia prima.

    

Il gruppo per avere l’approvazione ha atteso due anni, in cui ha avviato due diversi iter burocratici, uno dei quali prevedeva la collaborazione con aziende già autorizzate. Non a caso per la prima fase, la distribuzione della farina “Nutrinsect” sarà curata dalla Reire di Reggio Emilia. I destinatari sono le aziende alimentari e a tutto il settore horeca: mentre serve altro tempo per i supermercati.

   

Di preciso, l’allevamento della società non è considerato intensivo per via delle condizioni in cui vivono i grilli che contano un tasso di mortalità bassissimo. Inoltre, non sono usati farmaci o antibiotici, dunque il profilo nutrizionale del prodotto è di altissima qualità. Ciò è fondamentale per due principali aspetti:

  • la salute umana, poiché la farina in esame è ricca di proteine, ferro, calcio, vitamina B12 e fibre;
  • la salute ambientale, visto che per produrre 1kg di carne servono 15mila litri di acqua e solo 5 per 1kg di farina di grilli.

Ad oggi l’azienda produce 2 tonnellate di polvere di grillo liofilizzata al mese, grazie all’allevamento di 10 milioni di grilli. L’obiettivo è quello di produrne 400 tonnellate, ma c’è tempo per Nutrinsect di ampliare il proprio mercato e affinare le proprie tecnologie.

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Il Parmigiano Reggiano continua il suo percorso verso una produzione “green”.

By : Aldo |Febbraio 01, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Il Parmigiano Reggiano continua il suo percorso verso una produzione “green”.

La sostenibilità come soluzione alla crisi climatica è il principio che bisogna seguire per proteggere il nostro pianeta e allo stesso tempo i nostri prodotti. Soprattutto se si parla di alimenti DOP, tipici del Made in Italy, come ad esempio, il Parmigiano Reggiano, sempre più innovativo e “green”.

I cambiamenti che preoccupano

Il Parmigiano Reggiano è un formaggio DOP, nato probabilmente tra il XII e il XIV secolo nella zona tra Parma e Reggio Emilia. Si tratta del prodotto Made in Italy più importato e famoso al mondo, una chicca tutta italiana, parte della nostra cultura e tradizione. Tuttavia, come tanti altri alimenti tradizionali, anche il Parmigiano Reggiano deve confrontarsi con i cambiamenti climatici. In particolare, allevatori ed agricoltori si stanno muovendo affinché, i loro prodotti garantiscano qualità e caratteristiche nel tempo, riducendo il loro impatto sull’ambiente.

Sebbene la ricerca di nuove tecnologie e tecniche produttive del formaggio fosse iniziata anni fa, negli ultimi mesi è cresciuta per molteplici ragioni. Una in particolare riguarda la strategia per affrontare i cambiamenti climatici in modo tale che, la produzione dell’alimento possa continuare senza ostacoli di alcun tipo. Questa attenzione è incrementata soprattutto dopo le alluvioni di maggio nella regione dell’Emilia-Romagna, che hanno portato gravi danni nell’area da essi interessata.

Inoltre, tale evento ha sottolineato quanto sia importante la protezione dell’area di produzione del Parmigiano, una zona molto ristretta ma anche molto vicina ai corsi d’acqua. Si tratta di territorio che comprende Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Nello specifico l’esondazione unita alle condizioni di siccità del periodo di maggio, hanno avuto ripercussioni sulla produzione del latte. Questo processo è dovuto all’alterazione dei foraggi primaverili e quindi ad una scarsa e inadeguata alimentazione del bestiame.

 

I progetti e le soluzioni

Per affrontare i futuri eventi metereologici estremi e ridurre l’impatto del formaggio, il settore in questione ha applicato delle modifiche nei suoi processi produttivi. Perciò sono state attuate molteplici variazioni che consentono di incrementare la sostenibilità di ogni fase produttiva, garantendo la qualità del prodotto e la protezione del bestiame. Come in altri ambiti, anche qui, la sostenibilità non è rilegata solo ed esclusivamente alla riduzione delle emissioni, ma è un concetto generale e complessivo.

    

Negli anni l’intero ambito si è mosso per limitare gli impatti negativi sull’ambiente, con un occhio di riguardo per le emissioni di CO2. Questo è forse il problema più grande, della produzione, il più additato nelle varie discussioni correlate al riscaldamento globale e dunque alla scelta di diete vegetariane e vegane. Tuttavia, essendo questo un alimento simbolo dell’Italia, è difficile pensare di eliminarlo totalmente dalla nostra tradizione culinaria, o di renderlo “plant based”. Nonostante la nuova direttiva Europea non abbia compreso soluzioni per le emissioni delle filiere zootecniche, l’Italia si muove da anni per la loro riduzione. Infatti, secondo l’ISPRA, dal 1990 al 2021 il sistema zootecnico italiano ha ridotto complessivamente le emissioni di gas serra di circa il 15%. Per precisare la zootecnia incide per il 7,8% delle emissioni. Per rimediare a tale problema agricoltori e allevatori hanno approfondito la questione del biogas. I motivi alla base di questa mossa sono principalmente due:

  • Il 45% delle emissioni del settore agricolo dipende dalla fermentazione enterica delle vacche (che dipende dall’alimentazione);
  • La gestione delle deiezioni produce il 20% delle emissioni

Pertanto, la scelta che si porta avanti da anni è quella di sviluppare impianti di biogas alimentati proprio dai reflui zootecnici. Quindi il metano viene recuperato per la produzione di energia evitando la sua dispersione in atmosfera e limitando anche le emissioni di ammoniaca (-26%).

   

Le innovazioni delle singole aziende

Così, le varie aziende produttrici del Parmigiano Reggiano hanno cominciato ad apportare piccole, grandi modifiche per migliorare la loro impronta sul pianeta. Tutte sono coinvolte da anni in una trasformazione tecnologica per assicurare una maggiore qualità e sostenibilità dell’alimento. Questo è stato possibile grazie ad investimenti con lo scopo di fronteggiare siccità, alluvioni e transizione energetica.

    

Come prima cosa, è stata ridotta la quantità di antibiotici nell’alimentazione, del 43% in 10 anni, a seguito di modifiche che hanno migliorato giorno dopo giorno le condizioni di vita del bestiame. Lo dichiara Paolo Gennari, dell’Azienda Agricola Gennari che ha investito nella tecnologia con l’obiettivo di far vivere il bestiame nel benessere. Come? Con un monitoraggio completo e specifico delle varie condizioni di vita dell’animale e della sicurezza dello stabile in cui si trovano. In questo senso è importante monitorare la temperatura e tenerla costante per tutto l’anno, in modo tale che non ci siano grandi sbalzi anche per il corpo della vacca. Tutto ciò è possibile grazie ai grandi ventilatori applicati nelle stalle, limitando lo stress da caldo, l’aumento di infezioni ed emissioni dell’animale. Altrimenti, in estate le mucche bevono di più e mangiano meno, riducendo la produzione di latte. Un’ulteriore attenzione è rivolta alla fornitura di foraggio, sottoposta ad un rigido protocollo per poter essere somministrato alle mucche. Sulla base di tale regolamento l’Azienda Gennari ha deciso di coltivare direttamente 500 ettari di terreno (vicini gli allevamenti), per un’elevata sicurezza dell’alimentazione del bestiame.

    

Una diversa questione è invece legata alla tutela del territorio, come spiega Nicola Bertinelli, vicepresidente nazionale di Coldiretti e presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano. L’alimento in analisi è prodotto interamente in montagna. Il 20% della produzione totale ossia 850 mila forme, si è concentrata negli 81 caseifici di montagna che coinvolgono 900 allevatori. Dal loro lavoro di producono ben 4 milioni di quintali di latte. Ciò ha reso possibile il mantenimento di un’agricoltura in zone altrimenti abbandonate, invertendo una tendenza di decrescita che aveva colpito il comparto fino al 2014.

    

Mentre nell’azienda Valserena si sperimenta in modo diverso. Nell’impianto che produce 16 forme al giorno, c’è una grande attenzione verso l’irrigazione e la concimazione e si segue l’intera filiera produttiva. Nei 430 ettari di terreno oltre al foraggio, si coltivano pomodori, cereali ed erbe mediche. Inoltre, è prevista l’installazione di pannelli solari e al creazione di aree umide per il riparo e la riproduzione di uccelli, anfibi e mammiferi. Senza contare la semina “su sodo”, una tecnica per la coltivazione di frumento in terreni non lavorati.

     

Insomma, se questi sono gli impegni e le tecnologie delle aziende produttrici del Parmigiano Reggiano, possiamo dire che il prodotto finale è un Made in Italy speciale. Perché non solo, rappresenta la nostra tradizione, la qualità e la bontà dei nostri prodotti, ma l’impegno in una maggiore sostenibilità di produzione, per proteggere il Belpaese.

 

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A Roma arriva la “Proposta di strategia di adattamento climatico”

By : Aldo |Gennaio 30, 2024 |Home |Commenti disabilitati su A Roma arriva la “Proposta di strategia di adattamento climatico”

La Capitale d’Italia, secondo gli ultimi studi e i fenomeni estremi verificatesi è tra le città italiane più colpite dai cambiamenti climatici. In un capoluogo della sua portata qualsiasi modifica ad infrastrutture, spazi e dinamiche quotidiane risulta sempre una missione impossibile. Questo però non ha fermato il comune di Roma a proporre un piano per sviluppare degli adattamenti al cambiamento climatico.

    

Roma 2023

La situazione in cui si trova la città di Roma è abbastanza delicata ma allo stesso tempo descrive una vera emergenza. Le analisi degli ultimi anni affermano che a Roma l’aumento del caldo è più marcato rispetto a tutti gli altri capoluoghi di regione italiani. Nello specifico i suoi territori, dall’entroterra al mare, presentano fragilità che si intensificheranno con i cambiamenti climatici.

    

Per questo, il 23 gennaio 2024 è stato presentato al campidoglio un documento di 400 pagine, riguardante la strategia per gli adattamenti al cambio climatico. Nel testo si inquadrano scenari e si propongono soluzioni nell’ambito della rete idrica, della riforestazione urbana ed altro. Tutto ciò con l’obiettivo di mettere in sicurezza il territorio dagli impatti climatici previsti al 2050. L’approvazione da parte dell’assemblea capitolina è prevista per il 30 aprile, nel frattempo si organizzeranno incontri e workshop con stakeholders e gli enti coinvolti. Tra le realtà e gli studiosi si trovano:

  • Fondazione Cmcc (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici),
  • Ispra;
  • Cnr;
  • Dipartimento di Epidemiologia SSR Lazio;
  • ASL Roma 1 (DEP Lazio);
  • Enea;
  • Università La Sapienza;
  • Università Roma Tre;
  • Autorità distrettuale di Bacino dell’Italia Centrale;
  • Areti;
  • Ferrovie dello Stato;
  • Consorzio di bonifica;

La Strategia prevede di approfondire rischi e scenari per il territorio di Roma, per metterla in sicurezza e rafforzando la sua resilienza. In tal modo, la Capitale potrà mettersi al passo con le città europee che condividono gli stessi obiettivi sul clima.

    

Il documento

Il testo presentato individua l’insieme delle misure di adattamento da applicare a Roma entro il 2030 e servono per preparare il territorio agli impatti del 2050. La proposta affronta vari ambiti di intervento, tuttavia evidenzia quattro questioni prioritarie da affrontare a Roma:

  • Alluvioni ed esondazioni
  • Siccità
  • Isole di calore urbano
  • Impatti sul litorale costiero.

Gli obiettivi della fase iniziata, ovvero quella della consultazione pubblica, sono esattamente 3. Il primo è quello di promuovere la sensibilizzazione e la responsabilizzazione dei cittadini, rendendoli partecipi e consapevoli dei possibili avvenimenti. Il secondo invece, mira alla collaborazione scientifica per risolvere ed affrontare questi cambiamenti, favorendo la sperimentazione anche per quanto riguarda nuovi posti di lavoro. Infine, prevede una grande cooperazione con le realtà interessate e fondamentali per difendere e portare avanti le politiche climatiche. Nella prima parte del piano vengono presentati i dati meteoclimatici degli impatti in corso e dei rischi. In particolare, della riduzione delle precipitazioni piovose, la maggiore siccità e l’aumento delle ondate di calore. Si tratta si una fase introduttiva in cui si descrive un quadro completo degli ultimi anni e dei loro fenomeni.

      

Seconda e terza parte

La seconda parte è dedicata ai progetti di vario tipo in corso per rendere la città più resiliente agli impatti. Per esempio, si evidenzia l’importanza del corretto uso della risorsa più importante al mondo, ovvero l’acqua. In questo senso si descrivono i punti per ridurne lo spreco e gli interventi necessari. Per prima cosa si ricorda l’importanza di un efficiente sistema di monitoraggio territoriale dei bacini idrici e quindi anche della rete capitolina. Si intende addirittura digitalizzarla, massimizzando l’efficacia con nuove istallazioni e tecnologie. Mentre per una maggiore sostenibilità è stata avanzata la proposta di riusare le acque reflue in uso agricolo e industriale. 

      

Guardando ad un altro ambito viene citata la biodiversità urbana e la sua rilevanza, che può accrescerci con specifici progetti e interventi. Non a caso l’obiettivo generale è quello di rendere “la foresta urbana più resiliente, sana e diversificata, creando delle “Isole di naturalità”. Di conseguenza aumenta il benessere di tutti gli ecosistemi circostanti e quindi anche quello umano. Questi sono le operazioni “nature based” che devono necessariamente essere accompagnate dagli interventi nei contesti urbani antropizzati. Un esempio, i “tetti verdi” o le pavimentazioni di colori chiari per riflettere l’albedo.

        

Progetti avviati

Per chiudere il documento, sono riportati nella terza parte i progetti già avviati correlati agli ambiti e agli eventi elencati in precedenza. Si individuano principalmente gli obiettivi e le misure di adattamento per preparare il territorio di Roma agli impatti in corso e a quelli prevedibili. Tra i programmi in corso si citano le riforestazioni urbane, che tra il 2022 e il 2023 hanno visto crescere un totale di 448 piante vicino le scuole di quasi tutti i municipi di Roma.  Oppure la manutenzione della rete idrica, riducendone le perdite al 27,8% contro il 43% del 2007 (e una media nazionale del 42%). O ancora si parla di attività di riqualifica di piazze storiche come quella dei Cinquecento e di San Giovanni in Laterano.

       

Restando nell’ambito dei progetti avviati, bisogna ricordare che l’Assemblea Capitolina ha approvato il 19 gennaio 2023 le nuove Linee guida dei lavori pubblici di Roma Capitale. Questo è necessario anche per ridurre i livelli di inquinamento atmosferico, acustico e l’effetto isola di calore urbano e migliorare la città interamente.  Per finire, sono riportati anche i finanziamenti e gli enti finanziatori di ciascun progetto.

       

In conclusione

Con tale proposta, Roma diventa la prima città ad avvalersi di un piano strategico per l’adattamento contro i cambiamenti climatici. Che sia un merito o una necessità, vista la sua popolazione, le sue caratteristiche e l’importanza a livello nazionale, è pur sempre una mossa verso l’innovazione.
Ora bisogna attendere la fine di aprile per sapere se e come verrà messa in atto.

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Come possiamo rendere lo sci più sostenibile?

By : Aldo |Gennaio 28, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Come possiamo rendere lo sci più sostenibile?

Gennaio quasi al termine e la neve dovrebbe essere arrivata ovunque o per meglio dire, dove dovrebbe essere presente. Ma con gli anni, si riscontrano maggiori problemi in questo settore, soprattutto per chi, fino a qualche anno fa, ha vissuto grazie a questa stagione.

L’Italia sempre meno innevata

Ancora non possiamo avere un quadro completo riguardante il periodo nevoso del 2024, ma basta analizzare i dati del 2023 per capire la tendenza del futuro. L’allarme arriva dalla Fondazione CIMA, che sulla base dei suoi monitoraggi, afferma che la situazione peggiora annualmente sulle Alpi, a discapito anche dei bacini idrici.

Per indagare sulla situazione che stiamo vivendo, bisogna prima spiegare il concetto di “accumulation day” previsto per il 4 marzo. Si tratta del giorno di massimo accumulo di neve, dopo il quale è più difficile avere fiocchi intensi e prolungati. Quindi da quel momento in poi i serbatoi d’acqua sulle montagne, si riempiranno difficilmente nelle successive settimane. Tuttavia, questa condizione non rispecchia più il corso naturale del processo, soprattutto perché viene smorzato dai lunghi periodi di siccità (non solo estiva). Solitamente si registrano tra i 10 e 13 miliardi di m3 d’acqua nei primi giorni di marzo, nel 2023 erano solo 6 miliardi. 

Un secondo fattore che preoccupa gli studiosi è la velocità con la quale la neve fonde; ultimamente in modo più repentino rispetto al passato. Tale celerità è determinata dalle temperature calde che si registrano dopo un’abbondante nevicata. Così la neve si scioglie prima di quanto sarebbe necessario per il fabbisogno irriguo, raddoppiando il fabbisogno d’acqua per l’irrigazione.

Ultimo e non per importanza bisogna tenere da conto il fattore ghiacciai. Infatti, non solo la neve li alimenta d’inverno, ma li protegge in estate dalla fusione; peccato però che il trend stia cambiando. Nel 2022 infatti la fusione glaciale è avvenuta varie settimane prima del solito; dunque, è probabile che questo fenomeno si ripresenti anno dopo anno.

    

Il settore sciistico

Ovviamente tutti i processi appena descritti sono pericolosi per tutti e non solo per gli ecosistemi montani e fluviali. Nonostante ciò, c’è chi vive letteralmente grazie al periodo nevoso e alle attività ad esso correlate, che sta soffrendo in primis i cambiamenti climatici. Forse però, sono proprio loro, che possono fare la differenza, intraprendendo un cambiamento dei loro business rendendoli più sostenibili.

Secondo i dati del 2023, in Italia ci sono 5.700 km di piste, le quali hanno registrato il picco di frequenza a metà gennaio. Quindi è opportuno trovare delle soluzioni per organizzare delle settimane bianche meno impattanti sotto ogni singolo aspetto. Senza dubbio, tutto questo è possibile solo con un cambio di mentalità, un approccio diverso all’economia di questo settore. Comunque, alla base di tutto è necessaria la volontà collettiva, di vivere in armonia e proteggere la natura.

   

Periodicità e neve artificiale

Per invertire la rotta e migliorare le prestazioni di ogni attività legata al mondo dello sci, si possono considerare nuove soluzioni per settimane bianche, più verdi. Senza dubbio la prima sarebbe quella di approfittare della neve quando c’è, quindi organizzare viaggi, e gite fuori porta ad hoc. Al contrario del pensiero comune, ossia quello di pretendere che la neve sia presente anche quando non ci sono le condizioni giuste. Tale discorso è importante da diffondere soprattutto per limitare l’impiego della neve artificiale, una pratica che aiuta le realtà locali ma non il pianeta. Più precisamente, per ottenere il quantitativo necessario di neve artificiale, servono acqua ed energia in quantità elevate e ciò determina maggiori costi per tutti.

   

Più precisamente, l’acqua usata per la neve viene sottratta al settore agricolo o idroelettrico. Mentre l’energia usata aumenta i costi per i gestori, quindi per gli skipass e l’ambiente a meno che quell’energia non provenga da fonti rinnovabili. Anche perché, se l’energia usata, derivasse da combustibili fossili, sarebbe un circolo in cui: per rimediare a lacune per colpa del caldo, usiamo energia che incrementa le emissioni.  Oppure sarebbero auspicabili nuove tecnologie che consentono la produzione di neve artificiale sostenibile.

      

Per queste ragioni si potrebbe pensare di approfittare della neve quando è presente pianificando le proprie giornate seguendo il meteo e non le feste comandate. Di certo è più complicato per noi organizzarci, ma almeno avremmo la sicurezza di trovare la neve e passare delle belle giornate. In questo modo si sfrutta la risorsa per quanto tale, limitando pratiche artificiali incompatibili con i processi della natura. Al tempo stesso tour operator, albergatori ed enti locali potrebbero investire su altre forme di intrattenimento ed altre attività. Per esempio, si potrebbero pubblicizzare maggiormente camminate, ciaspolate, discese con lo slittino, sci alpinismo, sci di fondo e molto altro.

   

La sostenibilità dei turisti

Allo stesso tempo anche i turisti possono fare la differenza: anche in questo caso nessuno è escluso dal cambiamento. Per prima cosa si può ridurre la quantità di vestiti che si comprano ogni anno per le stesse attività. Infatti, basterebbe comprare degli indumenti di buona qualità una volta, anche a prezzi poco più elevati della norma, ma che possano durare anni. Per quanto riguarda sci, scarponi, bastoni, casco si potrebbe parlare di noleggio, in modo da ridurre gli articoli in viaggio, risparmiare e ridurre il nostro impatto sul pianeta.

   

Un secondo aspetto fondamentale è quello della mobilità. Sarebbe adatto spostarsi a piedi, favorendo passeggiate in mezzo alle montagne, che fanno sempre bene anche alla nostra salute. In alternativa si possono scegliere gli skibus, quindi mezzi di trasporto comuni, tipici delle località sciistiche.

Dunque, sebbene lo sci sia uno sport impattante, con gli accorgimenti elencati e le innovazioni del secolo troveremo sicuramente il modo di renderlo sostenibile. O almeno ci proveremo.

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Accordo di Parigi. Grazie all’accordo con la Svizzera, arrivano a Bangkok gli e-bus.

By : Aldo |Gennaio 17, 2024 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Emissioni, energia, Home |Commenti disabilitati su Accordo di Parigi. Grazie all’accordo con la Svizzera, arrivano a Bangkok gli e-bus.

Si sente spesso parlare di compensazione della CO2, di riforestazioni e progetti di sviluppo oltre oceano. Sembra che questi siano gli unici modi con cui uno stato possa compensare le sue emissioni, ma un’articolo dell’Accordo di Parigi cambia tutto.

Articolo 6 Accordo di Parigi

L’articolo 6 è un punto fondamentale dell’Accordo di Parigi poiché consente le collaborazioni tra Stati per raggiungere i propri obiettivi climatici. Il punto ammette due tipi di riduzioni delle emissioni conseguite all’estero (Internationally transferred mitigation outcomes, ITMOS) divise in 2 sottoclassi:

  • quelle che risultano da un meccanismo regolato dall’Accordo di Parigi (art. 6.4);
  • quelle che risultano da accordi bilaterali e multilaterali (art. 6.2).

Con tali premesse c’è la possibilità di creare una rete di cooperazione internazionale sul mercato del carbonio per ridurre le emissioni di gas serra. Tuttavia, anche questi meccanismi devono seguire delle regole specifiche, affinché i progetti di compensazione non siano vani. Più precisamente, esiste una procedura obbligatoria che entrambi gli stati devono seguire per evitare il doppio conteggio delle riduzioni delle emissioni. Quindi

  • un paese trasferisce unità di emissioni a un altro paese
  • il venditore sottrae tali unità di emissioni dal proprio obiettivo di emissioni
  • l’acquirente deve aggiungerle al proprio obiettivo.

Grazie a questo articolo, esiste un gran numero di operazioni possibili per la riduzione del carbonio, con lo scopo di agire contro i cambiamenti climatici.

    

Svizzera e Thailandia

La notizia che circola da qualche giorno riguarda proprio l’applicazione di tale articolo. In Thailandia sono arrivati gli e-bus o bus elettrici dalla Svizzera per compensare le emissioni di CO2. Un’operazione nuova, prima del suo genere che apre le porte a nuovi piani internazionali, sviluppati semrpe sulla base delle direttive dell’Accordo di Parigi.

    

Il programma di Energy Absolute Public Company Limited è sostenuto dalla Foundation for Climate Protection and Carbon Offset Klik (Klik Foundation). Ma anche da South Pole, società svizzera specializzata in queste specifiche operazioni. L’accordo bilaterale serve per ridurre le emissioni e l’inquinamento atmosferico di Bangkok attraverso l’introduzione di veicoli elettrici nel trasporto pubblico gestito da operatori privati. A tal proposito, il quotidiano “La Repubblica” ha intervistato Aurora D’Aprile, consulente di Carbonsink, parte di South Pole dal 2022. Nella conversazione si spiegano i motivi per cui questo, è considerato un piano unico nel suo genere.

    

Il primo progetto

La partnership tra Svizzera e Thailandia è considerata una novità poiché prevede lo scambio di crediti di carbonio tra Stati e non solo tra privati. La sorpresa deriva dal fatto che tale pratica è consentita dall’Articolo 6 ma nessuno ancora aveva applicato tale norma. Un fatto, questo, incomprensibile, poiché l’articolo mirava proprio alle collaborazioni tra governi. Inoltre, era chiaro che con la cooperazione si sarebbero ridotte maggiormente le emissioni, rispetto ad una pratica solitaria e privata.

   

Un secondo motivo per cui il progetto è ritenuto primo nel suo genere è il fatto che sia il primo in cui l’iter, legato al mercato del carbonio, sia stato completato. Più precisamente, il credito va sviluppato secondo dei criteri condivisi, dopodiché il Paese in cui il credito viene maturato deve autorizzarne l’esportazione, e questo è avvenuto.  Di certo la collaborazione tra stati rende il piano più influente e sicuro, visto che gli Stati possono dare maggiori garanzie sull’effettiva consistenza dei crediti. Soprattutto per quanto riguarda il doppio conteggio. Infatti, con l’applicazione dell’Articolo 6, rende teoricamente impossibile che la stessa riforestazione (o piano) venga usato per la compensazione di clienti diversi.

    

Un terzo motivo per definire il programma tra Svizzera e Thailandia è il suo oggetto: il rifornimento di bus elettrici nella metropoli di Bangkok. Effettivamente quando si parla di compensazione si punta sempre alle riforestazioni o ad impianti per energie rinnovabili. Quindi il piano in esame dimostra un nuovo settore in cui si può operare ossia il settore della mobilità elettrica.

    

Conclusioni

Tuttavia, non sono mancate critiche anche in questa situazione, soprattutto contro la partnership stessa. Le lamentele si basano sull’idea che he prima o poi Bangkok avrebbe dovuto comunque cambiare la sua flotta di bus obsoleti. Pertanto, non si assiste ad un’”addizionalità”, non è un’operazione che si fa in più per il clima.

   

Ma è pur vero che dietro tali progetti ci sono talmente tante dinamiche e questioni da seguire che criticarne lo scopo, non risulta produttivo. Soprattutto perchè si tratta di stati diversi sotto ogni punto di vista; quindi, aver trovato un accordo è già una vittoria.

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Auto elettriche e batterie innovative: a che punto è arrivata la scienza?

By : Aldo |Gennaio 17, 2024 |Home |Commenti disabilitati su Auto elettriche e batterie innovative: a che punto è arrivata la scienza?

Si parla di transizione ecologica, di nuove abitudini, rinnovabili ed elettrico. I fatti non vanno alla stessa velocità delle parole ma di sicuro siamo in una fase di cambiamento. Tuttavia, ci sono ancora dubbi sull’efficienza dei nuovi sistemi tecnologici promossi dal settore sostenibile.

    

La ricarica delle auto elettriche

La vendita di auto elettriche nel 2023 è aumentata rispetto all’anno precedente, passando da un 4,2% ad un 5,6%. Nello specifico si contano, tra quelle vendute e quelle immatricolate, 66.679 auto. Sebbene ci sia una leggera crescita sotto questa sfera, ci sono ancora delle perplessità per questa transizione.

   

Tra queste si discute sempre più sui tempi di ricarica delle batterie, per alcuni ancora troppo lunghi per essere efficienti. L’EY Mobility Consumer Index 2023, ha condotto uno sondaggio in Italia, per dimostrare quali siano le necessità e le aspettative degli italiani. In particolare, afferma che il 44% degli intervistati includono tra i fattori di maggior impatto nell’esperienza di ricarica proprio il tempo di attesa troppo lungo. Oltre a questi sono compresi il prezzo iniziale e le difficoltà correlate alla scarsa presenza di colonnine di ricarica nelle strade.

Quella di velocizzare la ricarica delle auto rappresenta una richiesta difficile da realizzare, almeno per ora e per l’attuale ampia domanda. Ma non è detto che sia impossibile.

   

Gli studi

La ricarica delle auto ha dei tempi ancora troppo lunghi secondo alcuni ma per poter risolvere tale “problema” servono delle particolari innovazioni. Innanzitutto, le auto elettriche hanno delle batterie agli ioni di litio, che hanno bisogno di un’enorme quantità di energia per garantire un’elevata autonomia.

   

Ovviamente a seconda dell’auto ci saranno condizioni di guida, della potenza e delle applicazioni che possono variare la prestazione della batteria. Nonostante ciò, si può confermare che una batteria da 50 kWh, può garantire tra i 250 e i 300 chilometri di autonomia. Ci sono anche modelli più prestanti che possiedono batterie che arrivano anche ai 100 kWh, ed il problema è proprio nella capacità delle batterie. Perché ricaricare una batteria di un certo livello, serve un determinato tipo di potenza elettrica: certo è che se i tempi si accorciano la potenza deve aumentare.

   

Tale fenomeno, è stato spiegato da Claudio Rabissi, ricercatore del MRT FuelCell & Battery Lab del Dipartimento di Energia del Politecnico di Milano. In pratica la batteria ha un range di tensione preciso che raggiunge il massimo quanto più è carica. In questo range quindi la batteria può lavorare, ma proprio per la caratteristica appena citata, si presenterebbero vari problemi con la ricarica rapida. Infatti, ricaricando velocemente la batteria, la tensione arriverebbe il limite massimo in poco tempo e prima di aver caricato il 100%, fermandosi magari all’80%. A quel punto nessuno sceglierebbe di girare senza “pieno” e quindi si aspetterebbe un tempo maggiore per quel 20% mancante.

    

Concretamente, la richiesta di una ricarica rapida potrebbe non convenire poiché:

  • aumenta la potenza di ricarica
  • il limite massimo di tensione si raggiunge prima
  • bisogna abbassare la potenza
  • serve più tempo per terminare la ricarica.

Si tratta quindi di un trade-off, una pratica che porterebbe solo ad uno sforzo maggiore della batteria e quindi ad una sua usura.

    

La disponibilità

Oltre al problema dei tempi di ricarica, gli intervistati ricordano la scarsa rete di colonnine presenti nelle strade italiane che va contro la ricarica veloce. Questo è il dettaglio che i richiedenti non hanno tenuto in mente, ossia il fatto che comunque l’energia per le batterie arriva dalla rete elettrica.

    

In sintesi, non c’è l’adeguata disponibilità di elettricità per sostenere dei ritmi così veloci ed energivori. Per esempio, la potenza massima disponibile di un’utenza domestica normalmente è pari a 3,3 kW. Se in una stazione di ricarica di fossero anche solo 4 automobili, la richiesta di potenza sarebbe più che elevata. Inoltre, in una tale situazione, servirebbero grandi potenze non programmabili, che potrebbero determinare o coincidere con picchi di domanda ingestibili. 

    

Proprio per tale ragione, la scienza si sta concentrando sullo sviluppo di sistemi di accumulo che possano immagazzinare energia, per donarla quando necessaria. In questo modo si potrebbero incrociare la domanda e l’offerta rendendo più efficiente ed efficace la transizione all’elettrico.

   

Oppure si potrebbe continuare a lavorare sulle batterie a litio perfezionando la creazione e la struttura interna dei componenti. Mentre il fronte più rivoluzionario si basa sulle batterie quantistiche, per funziona il processo inverso rispetto a quello spiegato nei paragrafi precedenti. Maggiore è la taglia della batteria, più veloce è la ricarica. Si tratta comunque di una tecnologia alle prime fasi sulla quale sta lavorando la start-up Planckian, spin-off congiunto dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore.

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Nanoparticelle di plastica nell’acqua di bottiglia: i risultati inaspettati.

By : Aldo |Gennaio 16, 2024 |Acqua, Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Nanoparticelle di plastica nell’acqua di bottiglia: i risultati inaspettati.

Che la plastica sia arrivata ovunque non è più un segreto, né tantomeno il fatto che è arrivata anche all’interno del nostro corpo. Questo fatto però apre un discorso molto delicato che si divide in due, tra preoccupazioni e business.

     

In Italia

L’Italia è denominata come il Bel Paese proprio per le migliaia di qualità che detiene. Peccato che spesso e volentieri queste caratteristiche vengano poi sopraffatte da aspetti negativi più ingombranti. Un esempio lampante e ad hoc è quello che riguarda l’acqua potabile.

     

L’Italia gode di acqua potabile da rubinetto che proviene per l’84,8% da fonti sotterranee naturalmente protette e di qualità, che necessita di pochi altri trattamenti. Sebbene abbiamo questo vantaggio siamo sul podio mondiale dei consumatori di acqua in bottiglia: un’ambiguità inspiegabile. Infatti, secondo un dossier di Ismea, l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, l’Italia ha peggiorato negli anni questa tendenza. Siamo il terzo Paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia, con un aumento delle vendite in 10 anni (2009-2019) di +100%. In concreto sono state vendute più di 10 miliardi di bottiglie all’anno. Probabilmente questo è uno di quegli improbabili e assurdi controsensi dello Stivale, su cui dovremmo lavorare.

    

In modo analogo funziona il resto del mondo, come riportato dal “Guardian” il quale afferma che ogni minuto a livello globale viene acquistato un milione di bottiglie di plastica. È ovvio quindi che non ce ne sbarazzeremo ne velocemente, né facilmente: nel frattempo la plastica continua ad aumentare a dismisura. In soli 70 anni, siamo passati dai 2 milioni di tonnellate, alle oltre 400.

   

Nanoparticelle nell’acqua di bottiglia

Sulla base delle notizie sopracitate non è un caso né tantomeno un mistero che l’acqua in bottiglia sia piena di nanoparticelle di plastica. Da anni si studia la diffusione della plastica, le tipologie, i danni che causa agli ecosistemi e da poco se ne studiano anche gli effetti sull’uomo. Se prima si parlava della plastica ingerita attraverso l’alimentazione, si è passati a ritrovarla nel sangue e per ultimo anche nella placenta di donne incinta. Così medici e studiosi si sono allarmati perché il focus è passato dai danni che la plastica provoca agli altri ecosistemi, ai danni che determina sulla nostra salute.

    

Tuttavia, prima di analizzare la sfera sanitaria è opportuno descrivere e capire i risultati delle varie analisi e i pensieri dei ricercatori sul fatto. Iniziamo da uno studio pubblicato sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences), organo ufficiale della National Academy of Sciences. L’indagine mirava alla ricerca di frammenti di grandezza anche inferiore a 100 nanometri nei prodotti di 3 celebri marche, e i risultati hanno stupito tutti. Ben 240 mila frammenti di plastica in un solo litro d’acqua, si tratta di un numero 100 volte più grande rispetto ai precedenti studi e non solo. È una quantità che supera di gran lunga i livelli trovati nell’acqua di rubinetto.

     

Dopodiché l’attenzione è stata spostata sui tipi di particelle, ossia quali tipi di plastica possiamo trovare nell’acqua in bottiglia. Anche qui i risultati hanno sorpreso gli studiosi, che hanno usato strumenti di massima innovazione. Per questa fase di studio, infatti, sono stati utilizzati e puntati due laser in grado di osservare e “leggere” la risposta delle diverse molecole. Grazie a tale tecnologia hanno scoperto che esistono dalle 110 mila alle 370 mila particelle di plastica di 7 tipologie diverse quali:

  • Il PET (polietilene tereftalato) usato maggiormente per imbottigliare il 70% delle bottiglie per bevande e liquidi alimentari (a livello globale);
  • la poliammide, una classe particolare di nylon che potrebbero derivare dai filtri di plastica utilizzati per purificare l’acqua prima dell’imbottigliamento;
  • polistirene, polivinilcloruro e polimetilmetacrilato, usati nei processi industriali.

Sebbene i ricercatori non siano riusciti a identificare il 90% delle nanoparticelle, altri hanno approfondito le ricerche sulle origini di alcune. Per esempio, Antonio Limone, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno sottolinea che l’acqua imbottigliata, possa essere contaminata in varie fasi della catena produttiva e distributiva. È semplice anche capirne il motivo, poiché durante lo stoccaggio, luce e temperatura favoriscono la migrazione dei contaminanti nell’acqua. Mentre Carola Murano, ecotossicologa del Dipartimento di Ecologia Marina Integrata della Stazione Zoologica Anton Dohrn spiega le difficoltà riscontrate in questo tipo di analisi. Infatti, dichiara che:

    

…l’assenza di metodi standardizzati e talvolta poco sostenibili per la caratterizzazione e la manipolazione di oggetti di plastica di dimensione sub-micrometrica e nanometrica non ci consente a pieno di trarre conclusioni scientificamente chiare, soprattutto se in ballo ci sono molteplici variabili.”

Pertanto, sarebbe appropriato affrontare il problema con

 

…un approccio che includa le migliori pratiche di gestione dei rifiuti e lo sviluppo di materiali alternativi e sicuri per l’ambiente e una maggiore consapevolezza tra i consumatori”.

Un problema sanitario

Tali evidenze hanno scatenato delle discussioni attorno alla questione sanitaria. Ovvero, tutte queste nanoparticelle, le ingeriamo per mezzo dell’acqua imbottigliata che beviamo. Di conseguenza il particolato entra in circolo nel nostro corpo e dalle ultime analisi arriva ovunque. Dunque, quello che tutti si chiedono ora è: quali effetti dannosi possono determinare per la nostra salute?

    

Nonostante nel 2019, l’OMS avesse “frenato” il legame tra nano plastiche e salute umana, i ricercatori dell’ultimo studio hanno tante preoccupazioni. Difatti le particelle sono arrivate addirittura negli embrioni (studio dell’Università delle Hawaii a Manoa e del Kapi’olani Medical Center for Women & Children). Oltre alle nano plastiche, ci sono elementi come alchifenoli, ftalati che anche a basse concentrazioni, possano causare effetti tossici agendo in modo additivo.

     

Dall’altra parte c’è chi come Jill Culora, portavoce dell’International Bottled Water Association ricorda le lacune nel settore descritto. Secondo la sua opinione mancano dei metodi standard e un vero e proprio consenso scientifico sui possibili effetti sulla saluta umana. Eppure, crede che le modalità con cui vengono diffuse le notizie sulla questione, spaventino inutilmente i consumatori. Ovviamente sottolineare la pericolosità di prodotti comuni come l’acqua in bottiglia è un tema molto delicato, una faccenda da trattare con le pinze. Ma non per questo bisogna voltare pagina o andare oltre, poiché, se la plastica è arrivata nella placenta di donne in stato interessante, si deve assolutamente approfondire la ricerca.

     

Senz’altro una soluzione al problema sarebbe quello di bere più acqua del rubinetto che costa meno ed è sicura. Altrimenti, se si preferisse l’acqua frizzante o si necessita acqua a basso residuo fisso allora si potrebbe optare per sistemi di filtraggio o di gassificazione. Certo è che questi strumenti hanno un costo più elevato della bottiglia di plastica, ma non hanno un impatto elevato come le seconde.

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Dalla Svizzera arriva Water Saver: il doccino che fa risparmiare 182 milioni di litri d’acqua.

By : Aldo |Gennaio 13, 2024 |Acqua, Arte sostenibile, Home, menoacqua |Commenti disabilitati su Dalla Svizzera arriva Water Saver: il doccino che fa risparmiare 182 milioni di litri d’acqua.

Sappiamo tutti quanto l’acqua sia una risorsa fondamentale per la vita di tutti e non solo perché è necessaria alla nostra salute. Tuttavia, è una delle risorse più consumate e sprecate nel mondo e pertanto bisogna invertire questa tendenza prima che sia troppo tardi.

      

Acqua, consumi e sprechi

Che l’acqua sia la linfa vitale di ogni singolo essere vivente non è un segreto. L’oro blu che il pianeta ci regala da millenni è una risorsa preziosa e come tale deve essere trattata: peccato che non tutto vada come dovrebbe. Infatti, l’acqua, principalmente quella potabile, che ricordiamo essere meno dell’1 % di quella presente sulla Terra, viene consumata e sprecata in maniera smodata.  È ovvio che sia inclusa in una quantità infinita di attività quotidiane e necessarie della nostra vita, questo non lo esclude nessuno. Ma riflettendo sull’uso che ne facciamo, ci renderemmo conto di quanto siamo lontani dal preservarla, o almeno dal consumarla in modo responsabile. Basti pensare che una famiglia media usa circa 200 m3 di acqua potabile l’anno. Questo vuol dire che un italiano usa circa 200 l di acqua al giorno solo per:

  • Lavarsi i denti
  • Farsi la doccia
  • Lo sciacquone del WC
  • Lavare i panni
  • Lavare i piatti
  • Lavare auto
  • Cucinare
  • Annaffiare

È comunque curioso soffermarsi nell’ambito dell’igiene personale per ricapitolare il nostro impatto sull’ambiente. Secondo le statistiche, infatti, la doccia è una delle attività che contribuiscono maggiormente al consumo e spreco di acqua. Nello specifico, dal miscelatore escono 15-16 l d’acqua al minuto: quindi per una doccia di 5 minuti si usano 75-80 litri di acqua. Se poi si impiega anche un quarto d’ora di tempo si raggiungono anche i 225-240 litri d’acqua. Legate a questo ambito ci sono poi delle professioni esterne che usano grandi quantità d’acqua al giorno, una tra queste il parrucchiere.

       

Water Saver nei saloni

Secondo vari dati, sembra che un parrucchiere nella media possa consumare dai 50 a 200 litri d’acqua al giorno. In questo caso un professionista eguaglia con la sua attività il consumo d’acqua di un italiano. Calcolando che in Italia sono presenti 100 mila attività, possiamo solo immaginare alle quantità di acqua usate in un giorno, solo per il lavaggio dei capelli.

    

I saloni di bellezza sono centri che la gente frequenta per un cambiamento, per un’innovazione del proprio volto o del corpo. Non a caso è proprio da qui che arriva la nuova tecnologia della startup svizzera Gjosa. Questa realtà ha trovato il modo con cui anche un parrucchiere possa ridurre il suo impatto ambientale o più precisamente la sua impronta idrica. L’idea dell’impresa è diventa realtà, grazie al gruppo francese L’Oréal, che ha finanziato il progetto con i fondi BOLD (Business Opportunities for L’Oréal Development). Dalla suddetta collaborazione è nato Water Saver il doccino smart, un oggetto di uso comune, progettato con tecnologie avanzate per risparmiare litri e litri d’acqua. Un vero e proprio game changer, nominato tra le “100 migliori invenzioni dell’anno” della rivista TIME, nel 2021.

        

Tecnologia, usi e risparmio

Water saver è un soffione doccia coperto da 13 brevetti basato sulla tecnologia di frammentazione dell’acqua. Si tratta di un getto a basso flusso che usa 2,4 litri di acqua al minuto invece di 7. Il sistema accelera la velocità delle gocce, che vengono poi riutilizzate in un secondo momento, dividendole in 10 parti più piccole. Tale tecnologia consente di risparmiare 182 milioni di litri d’acqua (equivalenti a 72 piscine olimpioniche), pari ad una riduzione del 69%.

    

Più precisamente, il getto si attacca ai lavandini e dispone di tre slot per shampoo, balsamo e trattamento, che vengono distribuiti direttamente nel flusso d’acqua. Un approccio brevettato Cloud Cleansing che favorisce una migliore distribuzione e assorbimento del prodotto, nonché una migliore efficienza. Successivamente, con l’azionamento del getto si creano goccioline microionizzate che si scontrano tra loro in un flusso pressurizzato. Così facendo si riduce la quantità d’acqua per singolo lavaggio rivoluzionandolo e e migliorando l’esperienza e l’efficacia del trattamento.

        

Il risultato 

Nonostante ciò, esistono altrettante attività legate ad ambiti di produzione alimentare o tessile che usano quantità infinite d’acqua. Per questo è fondamentale la ricerca, proprio per dare luce ad altri brevetti simili che possano ridurre l’uso dell’oro blu anche in altri settori.

    

Ad ogni modo, Water Saver ha riscontrato un grandissimo successo nel primo anno di uscita. Non a caso nel 2023 è stato distribuito a più di 10mila saloni di parrucchiere professionali in tutta Europa e nel Medio Oriente. E sebbene sia un prodotto pensato per i saloni, può essere usato anche in casa. Ancora una volta l’innovazione è oggetto di salvaguardia delle risorse del mondo, in questo caso, la più importante, ovvero l’acqua.  

     

Questo prototipo è la dimostrazione di come un oggetto di uso comune, possa determinare un grande cambiamento, ma non solo. Prova il motivo per cui la sensibilizzazione su qualsiasi tematica sia fondamentale per migliorare il mondo. Con informazioni precisi e strumenti adeguati, si può cambiare la propria quotidianità, in modo da ottimizzare e ridurre il proprio impatto sul Pianeta Terra.

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Approvato il PNACC: dopo 7 anni arriva la nuova strategia “soft”.

By : Aldo |Gennaio 07, 2024 |Arte sostenibile, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Approvato il PNACC: dopo 7 anni arriva la nuova strategia “soft”.

Il Decreto del MASE n. 434 del 21 dicembre 2023 è stato approvato. L’Italia pubblica il suo PNACC tra perplessità e preoccupazioni per le emergenze future.

    

Il nuovo Decreto del MASE

Finalmente è arrivato. Dopo l’ultimo documento, risalente a 7 anni fa, è stato approvato il nuovo PNACC (Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici). L’obiettivo del testo è quello di fornire un quadro nazionale per:

  • contrastare i rischi;
  • migliorare le capacità di adattamento;
  • trarre vantaggio dalle opportunità legate alle nuove condizioni climatiche.
    Si tratta di un piano di attuazione della strategia creata nel 2015, per


contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti dei cambiamenti climatici e aumentarne la resilienza”.

Il PNACC è fondamentale soprattutto per uno stato come quello italiano, per via delle sue caratteristiche geomorfologiche, climatiche e ambientali. L’Italia è un’area estremamente vulnerabile ed un rilevante hot-spot di biodiversità; pertanto, tale traguardo è fondamentale per affrontare le difficoltà del futuro.

   

La struttura del testo

Il documento necessario per adattarsi ai cambiamenti climatici individua 361 misure di carattere nazionale o regionale, azioni di informazione, sviluppo di processi organizzativi e partecipativi. Tali misure sono divise in 3 fasce:

  • soft: non richiedono interventi strutturali e materiali diretti;
  • green: quando necessitano di soluzioni naturali;
  • grey: se hanno bisogno di azioni materiali dirette su impianti, tecnologie o infrastrutture.

Ma proprio tale suddivisione ha già sollevato polemiche e dubbi, poiché ben oltre 250 azioni su 361, sono classificate come soft. Pensando a tutti gli eventi estremi di quest’anno, alle grandi lacune del nostro paese, sicuramente non era quello che ci si aspettava. Gli interventi strutturali sono dunque solo 87, di cui solo 46 sono green. Per esempio, un fenomeno che oggi tiene in mano oltre il 93% dei comuni italiani, rientra nell’ambito del dissesto idrogeologico. Proprio questo problema riserva solo 29 interventi tutti catalogati come classe “soft”.
     
Forse si sperava in un piano molto più rigido, concreto che analizzasse ogni singola tematica e trovasse la soluzione adatta a ciascuna. L’insieme di queste misure dovrebbe esse in grado di incidere sui seguenti settori:

  • acquacoltura, pesca, zone costiere
  • agricoltura e foreste
  • ecosistemi acquatici e terrestri;
  • desertificazione, dissesto idrogeologico, risorse idriche;
  • energia;
  • insediamenti urbani, patrimonio culturale, turismo, trasporti, industrie.
  • salute;

In particolare, sono state evidenziate delle linee più forti per quanto riguarda le risorse idriche, forse uno dei temi più dibattuti e preoccupanti degli ultimi anni. In questo senso si punta ad incrementare la connettività delle infrastrutture idriche e la loro manutenzione, l’irrigazione e la bonifica. Dunque, una maggior cura della rete fluviale liberandola da barriere e la capacità di accumulo.  Mentre per l’agricoltura si consigliano maggiori investimenti cosicché i nostri terreni possano resistere ed adattarsi ai nuovi climi.
    
Di seguito si parla quindi di protezioni per il gelo e le grandinate (sempre più frequenti e potenti), l’efficientamento delle risorse per coltivare. E in più si citano idee per aumentare il benessere animale. Per fare un esempio, solo nel 2023, la mancanza di un piano simile ha provocato nel Paese oltre 6 miliardi di euro di danni all’agricoltura italiana.

    

La situazione in Italia

Il testo riporta tuttavia le criticità riscontrate negli ultimi anni con previsioni, studi e ipotesi per l’avvenire. Tra gli argomenti più complessi, sono stati affrontati:

  • La siccità: anomalie legate fino a -40% di piogge;
  • Innalzamento dei mari: si prevede un aumento di 19 cm entro il 2065;
  • Temperature dei mari: le analisi ipotizzano un aumento del 1,9° C nel Tirreno tra il 2036-2065, addirittura 2,3° C nell’Adriatico;
  • I ghiacciai: hanno perso il 30-40% del loro volume;
  • Copertura nevosa (fondovalle e versanti meridionali): si limiterà a 5 settimane fino ai 2000 m, a 2,3 settimane fino ai 2500 m.

Tali questioni sono concatenate l’una con l’altra e determinano maggiori e più frequenti fenomeni estremi. Questi sono a loro volta legati all’aumento delle emissioni di CO2, che non sembrano diminuire. In questo senso si presentano 3 scenari, di esito diverso, dal peggiore al migliore. Nel caso peggiore, le concentrazioni a fine secolo saranno quasi quadruplicate rispetto i livelli preindustriali; si pensa ad un range tra gli 840-1120 ppm. Precisamente questo potrebbe essere il quadro peggiore con un conseguente aumento della temperatura globale (nel 2100) di 4-5° C. il caso migliore è quello di una ipotetica e forte mitigazione delle emissioni che verrebbero dimezzate entro il 2050. Infine, l’esempio intermedio prevede la riduzione delle concentrazioni sotto il livello attuale (400 ppm) entro il 2070.

    

In conclusione

Ancora una volta, un piano necessario, fondamentale per il nostro Paese è arrivato deludendo le aspettative di molti. O forse tutti sapevano come sarebbe andata. Per di più, il testo presenta un secondo e particolare problema, ossia i finanziamenti. Infatti, oltre alle misure che danno poca affidabili, c’è una seconda questione ovvero i costi. In pratica, secondo gli autori ci sarebbero molte risorse per attuare le azioni prima citate, tuttavia solo una parte è direttamente disponibile in Italia. Ossia, i fondi europei sanno erogati solo a seguito di evidenti sforzi e la presentazione di candidature qualitativamente eccellenti.

Non ci resta dunque che pensare che il futuro in questo senso sia prevedibile e già scritto, oppure sperare in una svolta vera e propria.  Sicuramente lo scopriremo solo col passare del tempo.

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La sostenibilità aiuta anche le strutture sanitarie. Il caso Global Biomedical Service.

By : Aldo |Gennaio 03, 2024 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su La sostenibilità aiuta anche le strutture sanitarie. Il caso Global Biomedical Service.

Aggiustare e riutilizzare dei prodotti dovrebbero essere le attività alla base della nostra società, che al contrario è consumista. Si prende e si butta tutto, si consuma più del dovuto anche in settori in cui non ci sono abbastanza finanziamenti per sostenere un tenore simile. Tra quelli più in difficoltà c’è il settore sanitario che ha delle soluzioni sostenibili.

    

GBS per la sostenibilità

Parlando di sanità pubblica e privata in Italia, non si può non citare la startup nata nel 2018 Global Biomedical Service. Una realtà che offre servizi specifici per centri diagnostici privati e strutture sanitarie come l’installazione e il trasporto di apparecchiature radiologiche e simili. Sebbene sia un leader nel suo campo, sta acquisendo molta notorietà anche per i servizi circolari che propone ad aziende pubbliche e private. GBS ritira e valuta l’usato, si occupa di smaltimento, della manutenzione delle Gabbie di Farady e della fornitura di ricambi per i principali sistemi radiologici.

  

Il gruppo è nato dall’idea di Giovanni Lombardo (CEO e founder) e da Emiliana De Prisco. Una volta stabiliti a Castel San Giorgio, in provincia di Salerno, iniziarono le loro attività con soli 10 membri, oggi sono in 50. Inoltre, GBS è indicata dal Politecnico di Torino tra le 22 migliori startup a significativo impatto sociale e ambientale del 2023 in Italia.

  

L’obiettivo del gruppo è quello di non buttare nulla, di riparare ciò che ha ancora possibilità di vita e di recuperare elementi da sistemi ormai obsoleti. Per esempio, se ci sono macchinari guasti e quindi irreparabili, loro si occupano di recuperare i componenti elettronici fondamentali. Mentre se si tratta di un sistema che può essere riparato o quelli già funzionanti e ritirati in permuta pensano a come “ricondizionarli e ‘aggiornarli”. Questo dal punto di vista software che hardware)

L’obiettivo finale è quello di inserirli nuovamente nel mercato: mediamente arrivano in nuovi centri diagnostici e con pochi fondi.  

   

I beneficiari

Come descritto in precedenza, i beneficiari di tali servizi sono i nuovi centri diagnostici con poche finanze ma soprattutto le cliniche veterinarie. Perché proprio queste strutture, ce lo spiega l’ultimo censimento di Anmvi, l’Associazione nazionale medici veterinari italiani. Lo studio sottolinea che in Italia sono aperte ben 8 mila cliniche, di cui 8 su 10 sono solamente piccoli laboratori. Realtà come questa hanno difficoltà ad acquistare macchinari per Tac e risonanze ed è quindi a loro che si rivolge la GBS. La startup si dedica anche alle cliniche di Paesi e aree poco coperte da servizi importanti come quelli dell’alta diagnostica.

    

I progetti di GBS

La startup recupera e rigenera le apparecchiature di diagnostica per immagini: si occupa di risonanze magnetiche, TAC, sistemi radiologici ed ecografi. Per esempio, di recente hanno recuperato una TAC multistrato 64 slice. Il sistema dismesso da un ospedale pubblico campano era destinato alla sua fine; invece, oggi funziona alla perfezione in un centro diagnostico privato nel Lazio.

   

Ancora la GBS è una delle poche aziende in Italia specializzate nella riparazione di sonde ecografiche e bobine per risonanza magnetica. Di solito queste vengono sostituite al primo difetto o malfunzionamento, mentre la riparazione evita la produzione di rifiuti speciali. Ovviamente permette all’azienda interessata un notevole risparmio economico.

    

Un ulteriore progetto è correlato alla produzione di Ghost Cage, una Gabbia di Faraday trasparente per risonanze magnetiche ad alto campo. Il meccanismo è realizzato con polimeri a basso impatto ambientale e l’attenuazione delle radiofrequenze e dell’effetto claustrofobico. Si rinnova dunque il brevetto di una tecnologia ecosostenibile, importante anche in questo settore, spesso dimenticato.

  

L’aiuto sostenibile alla sanità

Includere delle abitudini virtuose, delle collaborazioni all’ampia scala e inserire fondi per nuove tecnologie sono alcuni dei passi da fare nell’ambito sanitario. La situazione soprattutto in Italia non è delle migliori e pertanto servirebbero nuovi metodi per garantire adeguata assistenza medica ai pazienti con sistemi non obsoleti. Questo obiettivo non è impossibile da raggiungere come spesso crediamo, perché alla base di uno stato civile e avanzato si trova anche un’espressione sostenibile della vita.

    

Viviamo in un pianeta consumista che non si ferma davanti a nulla, neanche davanti alla fatiscenza di certe strutture sanitarie. Troppo spesso i macchinari con qualche difetto vengono buttati e rimpiazzati velocemente con altri molto costosi: a volte invece si resta senza.

    

Ancora una volta la sostenibilità potrebbe garantire un supporto necessario alle nostre istituzioni e alla vita di tutti, soprattutto ai servici pubblici. Riparando macchinari e recuperando i loro componenti determinerebbe un cambio di macchinari più veloce, meno costoso ed efficace, senza perdere la sicurezza del sistema “nuovo”.

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