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Il paradosso del decreto Ambiente 2024: trivelle sempre più vicine alle coste.

By : Aldo |Dicembre 19, 2024 |Emissioni |Commenti disabilitati su Il paradosso del decreto Ambiente 2024: trivelle sempre più vicine alle coste.

Negli ultimi anni, l’attenzione crescente verso le questioni ambientali ha portato a significativi aggiornamenti del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, noto come Testo Unico Ambientale (TUA). Le recenti modifiche riflettono l’impegno dell’Italia per una gestione sostenibile delle risorse naturali e affrontano le sfide legate ai cambiamenti climatici e alla tutela della biodiversità. Tuttavia ci sono ancora troppe controversie e non poche opposizioni da parte di associazioni ambientaliste e partiti politici.

Decreto Ambiente 2024

Il Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, noto come Testo Unico Ambientale (TUA), rappresenta il principale riferimento normativo italiano per la tutela ambientale. Promulgato con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita proteggendo l’ambiente e promuovendo l’uso sostenibile delle risorse naturali, il TUA raccoglie disposizioni in materia di Valutazione Ambientale Strategica (VAS), Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), prevenzione e controllo integrati dell’inquinamento (IPPC), gestione dei rifiuti, nonché tutela di acqua, aria e suolo. Questo corpus normativo integra la legislazione esistente nel rispetto degli obblighi internazionali ed europei e ha subito importanti aggiornamenti nel tempo, come l’introduzione di nuove sezioni nel 2015 e riforme volte a semplificare le procedure di autorizzazione e controllo.

In questo quadro, il Decreto Ambiente 2024, approvato definitivamente dalla Camera il 10 dicembre dopo il via libera del Senato, introduce diverse novità significative. Tra queste, spicca la controversa riduzione delle distanze di protezione per le trivellazioni marine, che passano da 12 a 9 miglia dalle coste. Il provvedimento vieta il rilascio di nuovi permessi di ricerca ed estrazione di gas e petrolio, ma prevede una riduzione della distanza minima esclusivamente per le concessioni già esistenti. Inoltre, viene introdotta una corsia preferenziale per le valutazioni ambientali riguardanti progetti di “preminente interesse strategico nazionale”, come impianti di stoccaggio, cattura e trasporto di anidride carbonica.

Novità e priorità

Il rilancio delle trivellazioni rappresenta una priorità per il governo Meloni, che lo vede come un’opportunità strategica per aumentare l’autonomia energetica del Paese. Tuttavia, solo pochi giorni fa il TAR del Lazio aveva bloccato il progetto di trivellazione Teodorico, che prevedeva lo sfruttamento di un giacimento al largo del Delta del Po. I giudici hanno sottolineato carenze significative nelle Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) e rilevato potenziali danni agli ecosistemi marini e costieri, criticità che il decreto appena approvato mira a risolvere attraverso la semplificazione e velocizzazione dei processi autorizzativi. Una delle misure più controverse del decreto è la riduzione delle distanze minime per le trivellazioni marine, che passano da 12 a 9 miglia nautiche, una soglia che il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha difeso affermando che garantisce comunque “un elevato grado di sicurezza”.

Parallelamente, il decreto Ambiente 2024 punta a incentivare altre infrastrutture legate alla transizione ecologica, assegnando priorità agli impianti strategici come quelli per l’accumulo di energia idroelettrica tramite pompaggio, utili per aumentare la capacità di immagazzinamento idrico. In questo ambito rientrano anche i sistemi di stoccaggio geologico della CO2, che prevede l’iniezione di anidride carbonica in forma liquida in rocce porose o giacimenti esauriti, e gli impianti per la cattura della CO2 convertibili in bioraffinerie, in grado di trasformare biomasse in biocarburanti.

Sul fronte del dissesto idrogeologico, il provvedimento attribuisce maggiori poteri ai commissari regionali, facilitando l’avanzamento dei lavori grazie a una più stringente supervisione sui fondi assegnati e promuovendo l’interconnessione delle banche dati per migliorare il monitoraggio e la tutela dei territori. Infine, vengono introdotte nuove norme per favorire l’economia circolare, con misure come la promozione del riutilizzo delle acque reflue raffinate a scopo irriguo, sottolineando l’intenzione del governo di rendere più sostenibili i cicli produttivi e di gestione delle risorse naturali.

Controversie e ostacoli

Il decreto Ambiente ha introdotto semplificazioni significative per le procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA), attribuendo priorità a progetti di rilevante interesse strategico, come quelli per la cattura, lo stoccaggio e il trasporto di CO2, considerati essenziali per ridurre il carbonio nell’atmosfera. Un esempio concreto è il progetto avviato a Ravenna, che mira a catturare il 90% delle emissioni di CO2 di un impianto locale e immagazzinarle in un giacimento esaurito a 3.000 metri di profondità. Oltre a incentivare interventi legati al PNRR e a velocizzare l’approvazione di progetti del valore di oltre 25 milioni di euro, le norme puntano anche su criteri di sostenibilità economica e tecnica.

Tuttavia, queste disposizioni hanno suscitato polemiche, soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste e dell’opposizione politica, che accusano il governo di favorire le fonti fossili a scapito delle energie rinnovabili, promuovendo progetti come le trivellazioni costiere entro le nove miglia. La deputata Luana Zanella (Europa Verde) ha evidenziato come tali misure rappresentino un freno alla transizione ecologica, mentre il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto-Fratin, ha difeso il decreto, definendolo un passo fondamentale per la semplificazione di settori strategici per l’economia. A questa controversia si aggiunge il dibattito sulla privatizzazione dell’acqua, escluso dal testo attuale ma che potrebbe rientrare nella manovra del 2025, alimentando ulteriori divisioni e opposizioni.

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Forrest Meggers, professore di Princeton, ha reso la sua casa 100% sostenibile.

By : Aldo |Dicembre 16, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Forrest Meggers, professore di Princeton, ha reso la sua casa 100% sostenibile.

Non c’è mai fine alla ricerca e alla scoperta di nuove conoscenze, tecnologie e soluzioni. Nella vita quotidiana come nello studio, più ci si interroga e più si va avanti con il progresso. Ed è così anche nella ricerca di nuove soluzioni per contrastare il cambiamento climatico sotto il punto di vista sociale, economico e ambientale. Nello specifico, si stanno studiando sempre più, le soluzioni che possano rendere sostenibile l’edilizia e anche renderla sostenibile a livello economico. L’esempio del professor Meggers potrebbe essere un modello da seguire.

L’impatto dell’edilizia e le soluzioni

L’edilizia ha un impatto significativo sull’ambiente, contribuendo in modo sostanziale alle emissioni di gas serra e al consumo di risorse naturali. Secondo le stime, il settore edilizio è responsabile di circa il 39% delle emissioni globali di CO2, considerando sia la costruzione che l’uso degli edifici. Le attività di costruzione richiedono enormi quantità di materiali, energia e acqua, e spesso comportano la distruzione di habitat naturali. Inoltre, l’uso di materiali non sostenibili e le pratiche costruttive inefficaci possono aggravare ulteriormente questi effetti negativi.

Scegliere un’edilizia sostenibile è cruciale poiché riduzione le emissioni di gas serra attraverso l’uso di materiali eco-compatibili e tecnologie energeticamente efficienti, come i sistemi geotermici e i pannelli solari. Aiuta nella conservazione delle risorse, utilizzando materiali riciclati o recuperati e progettando edifici che consumano meno energia, l’edilizia sostenibile contribuisce a preservare le risorse naturali. È fondamentale anche per mantenere la salubrità degli ambienti, questo perché gli edifici sostenibili tendono a creare ambienti interni più sani, riducendo l’uso di sostanze chimiche tossiche e migliorando la qualità dell’aria. Senza contare poi i benefici economici, quali risparmi significativi sui costi energetici nel lungo termine, rendendo gli edifici più economici da gestire. Infine è la base per la resilienza al cambiamento climatico essendo progettata per affrontare le sfide del cambiamento climatico, come l’aumento delle temperature e le condizioni meteorologiche estreme, contribuendo così a una maggiore resilienza delle comunità.

Forrest Meggers e la sua idea

Forrest Meggers, docente di ingegneria e architettura alla Princeton University, ha trasformato la sua casa in New Jersey in un esempio tangibile di abitazione sostenibile. L’impresa, avviata tre anni fa, è nata dalla convinzione che una progettazione intelligente possa ridurre drasticamente le emissioni e migliorare l’efficienza energetica. Insieme alla moglie Georgette Stern e alle loro quattro figlie, Meggers ha affrontato una ristrutturazione radicale per costruire una casa autonoma dal punto di vista energetico.

La casa, che funge da laboratorio vivente, riflette la passione del professore per i temi climatici, come spiegato nel suo corso universitario “Progettare Sistemi Sostenibili”. Meggers considera questa esperienza un esempio pratico per sensibilizzare non solo i suoi studenti, ma anche la comunità locale e il pubblico in generale, definendo l’attuale crisi climatica come una corsa pericolosa “a 100 miglia all’ora senza cinture di sicurezza”.

Ovviamente l’ambizioso progetto non è stato esente da sfide. La ristrutturazione ha superato il budget iniziale di 300.000 dollari di circa 40.000 dollari, e per un anno la famiglia ha dovuto vivere con una cucina improvvisata nel seminterrato. Georgette, ex ingegnere che ha lasciato la carriera accademica per dedicarsi alla famiglia, ha preso le redini come manager del progetto, coordinando gli amici che spesso si offrivano di aiutare nei lavori. Mentre Meggers ha iniziato il suo percorso accademico con l’intento di progettare biciclette ecologiche, ma la consapevolezza dell’impatto climatico degli edifici lo ha spinto verso un nuovo obiettivo: ripensare l’architettura e le infrastrutture domestiche per contribuire in modo significativo alla lotta contro il cambiamento climatico. Questa esperienza, benché impegnativa, rappresenta un modello concreto di come si possa agire per un futuro più sostenibile.

Sostenibilità domestica

Forrest Meggers, docente di ingegneria e architettura a Princeton, ha trasformato la sua abitazione in un progetto sperimentale di edilizia sostenibile. Per farlo ha investito inizialmente 300mila dollari, cifra poi lievitata a 350mila, e per un anno ha vissuto con la moglie e le quattro figlie in un seminterrato adattato. La casa, priva di caldaie o condizionatori e totalmente elettrica, è pensata per non dipendere dalla rete locale né dai combustibili fossili. Ogni modifica è stata progettata per ridurre al minimo consumi ed emissioni, integrando i principi di sostenibilità che Meggers insegna nel laboratorio C.H.A.O.S. (Cooling and Heating for Architecturally Optimized Systems).

Geotermia e innovazione tecnologica

Il cuore della ristrutturazione è stato l’installazione di un sistema geotermico avanzato. Questo sfrutta l’acqua delle falde sotterranee, mantenuta a una temperatura costante di circa 10°C, e la distribuisce in casa tramite una rete di tubi sotto il pavimento. Il sistema, reversibile, garantisce riscaldamento in inverno e raffrescamento in estate. Per aumentarne l’efficienza, Meggers ha perfezionato sensori e metodi di gestione dell’umidità, evitando così di ricorrere ad aria condizionata, ritenuta inefficiente. A tutto ciò si affianca un progetto di accumulo termico: due serbatoi sotterranei malleabili da 530 galloni ciascuno immagazzineranno energia per ridurre la dipendenza dalle pompe di calore. La ristrutturazione ha puntato anche sull’ottimizzazione degli spazi, abbattendo il piano superiore per costruire un nuovo tetto più basso e creare stanze private per le quattro figlie.

Questo ha permesso di eliminare i condotti dell’aria, sfruttando il sistema radiante. I materiali scelti rispecchiano l’approccio sostenibile: pavimenti in legno recuperato da frassini infestati da insetti, isolamento in lana di pecora e porte realizzate con legname locale. Per il bagno, un sistema innovativo permette di reindirizzare l’acqua del lavandino per lo scarico del WC. Anche l’esterno della casa è stato progettato per sfruttare strategie di riscaldamento e raffreddamento naturali. Finestre incassate e schermature solari passive favoriscono la luce solare in inverno e la ombreggiano in estate, ispirandosi a pratiche antiche come quelle degli Anasazi. A ciò si aggiungono pannelli solari per rendere la casa completamente autonoma dalla rete elettrica.

Un progetto personale con risvolti educativi

Per quanto complesso, il progetto di Meggers si è rivelato un punto di riferimento per l’edilizia green, tanto da essere visitato da studenti e colleghi. L’abitazione è oggi un laboratorio vivente, che dimostra come sia possibile costruire case a basso impatto ambientale in aree urbane. “Non serve vivere nel bel mezzo della natura per ridurre le emissioni”, commentano i suoi studenti, colpiti dall’ingegnosità del progetto.
Nonostante l’impegno profuso, la costruzione ha avuto i suoi momenti difficili. La moglie di Meggers, Georgette Stern, ha dovuto negoziare compromessi, soprattutto in cucina e sul tetto. Per mantenere felice la famiglia, Meggers ha persino sviluppato sistemi ad hoc per il raffreddamento estivo. Alla fine, l’armonia domestica è stata ripristinata grazie a stanze funzionali e a una cucina attrezzata. “Finirò quando smetterò di avere idee,” afferma il professore, segno che il progetto è più una missione che una semplice casa.

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Sembra migliorare la “salute” del buco dell’ozono.

By : Aldo |Dicembre 12, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Sembra migliorare la “salute” del buco dell’ozono.

In un periodo storico, sociale ed economico in cui tutto sembra andare sempre peggio, è fondamentale soffermarsi su ogni nuova conquista tecnologica, su ogni nuova politica volta alla protezione dell’ambiente e su ogni miglioramento del pianeta terra. Senza dubbio i cambiamenti climatici non ci risparmieranno, ma ogni tanto arrivano anche delle notizie positive che incrementano e rafforzano l’importanza di certe politiche, di certe nuove abitudini e delle azioni dedite alla salvaguardia dell’ambiente e del mondo.
in questo caso, sembra che con il 2024 si possa pensare ad una stabilizzazione o piccola ed iniziale ripresa del buco dell’ozono.

Il buco dell’ozono

Il buco dell’ozono è un fenomeno che indica la riduzione dello spessore dello strato di ozono nella stratosfera, particolarmente evidente sopra le regioni polari, come l’Antartide. Questo strato è fondamentale per la vita sulla Terra poiché assorbe la maggior parte delle radiazioni ultraviolette (UV) nocive provenienti dal Sole, in particolare le radiazioni UV-B e UV-C. La diminuzione dell’ozono permette a una maggiore quantità di raggi UV di raggiungere la superficie terrestre, con conseguenze gravi per la salute umana e per gli ecosistemi.

Le principali cause del così detto “buco” dell’ozono sono i clorofluorocarburi (CFC) e altri composti chimici rilasciati dalle attività umane, come l’uso di spray e refrigeranti. Nonostante gli sforzi internazionali, come il Protocollo di Montreal del 1987 che ha limitato l’uso di queste sostanze, il recupero completo dello strato di ozono è previsto solo per la metà del XXI secolo. Questo a causa delle persistenti emissioni e delle incertezze legate al cambiamento climatico.

Ovviamente tale fenomeno ha degli effetti negativi per l’intero pianeta e non solo degli umani. Per prima cosa l’aumento di tali radiazioni comporta un incremento dei casi di cancro della pelle, cataratta e indebolimento del sistema immunitario negli esseri umani. Inoltre, le radiazioni non filtrate possono danneggiare gravemente gli ecosistemi, compromettendo la fotosintesi nelle piante e riducendo la produzione di fitoplancton, che è essenziale per la catena alimentare marina.

L’evoluzione del fenomeno.

Negli ultimi 40 anni, il buco dell’ozono ha subito significative variazioni, influenzate principalmente dalle attività umane e dai cambiamenti climatici. Scoperto nel 1985 sopra l’Antartide, il fenomeno ha spinto all’adozione del Protocollo di Montreal nel 1987, che ha ridotto drasticamente l’uso di clorofluorocarburi (CFC), principali responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono. Nonostante ciò, negli anni ’90, il buco ha continuato ad espandersi, raggiungendo nel 2000 la sua massima estensione, pari a circa 29,9 milioni di chilometri quadrati. Tuttavia, segnali di recupero sono emersi dal 2006 grazie alla riduzione dei CFC e nel 2016, il buco si era ridotto di 4 milioni di chilometri quadrati rispetto al 2000.

Negli anni recenti, però, il fenomeno ha mostrato fluttuazioni significative. Nel 2023, il buco ha raggiunto un’estensione di oltre 26 milioni di chilometri quadrati, confermando una persistente variabilità nonostante i progressi ottenuti. Nonostante i progressi, gli scienziati avvertono che il recupero completo dello strato di ozono potrebbe richiedere decenni e che le dimensioni del buco continueranno a essere influenzate da variabili meteorologiche e dall’impatto del cambiamento climatico 12. Se le attuali tendenze continueranno, il buco dell’ozono potrebbe chiudersi completamente entro il 2066. Forse però, proprio il 2024 potrebbe essere l’anno di stabilizzazione o almeno di ripresa.

Il miglioramento del 2024

Negli ultimi quattro anni, il buco annuale dell’ozono antartico si è protratto più a lungo del solito, chiudendosi nella seconda metà di dicembre. Invece quest’anno, il fenomeno ha mostrato segnali di ritorno a comportamenti tipici, iniziando a chiudersi all’inizio di dicembre, un periodo più vicino alla media storica rispetto agli ultimi anni. Questo progresso è stato monitorato in tempo reale dal Servizio di Monitoraggio dell’Atmosfera di Copernicus (CAMS), che ha evidenziato una riduzione significativa dell’area massima del buco, scesa a 22 milioni di km² rispetto ai 25 milioni del 2023 e del 2022. Secondo il monitoraggio, l’area del buco si era ridotta costantemente nel mese di ottobre, seguendo l’andamento medio, per poi stabilizzarsi a circa 10 milioni di km² al giorno durante il mese di novembre. Inoltre, l’interruzione del vortice polare nella prima settimana di dicembre aveva contribuito a far sì che la chiusura del buco dell’ozono del 2024 si allineasse con la media registrata tra il 1979 e il 2021.

Laurence Rouil, direttore del Servizio, ha sottolineato che il Protocollo di Montreal e i suoi emendamenti avevano svolto un ruolo fondamentale nel contenere le emissioni di sostanze dannose per l’ozono. Tuttavia, aveva aggiunto che permaneva una certa variabilità legata alle dinamiche naturali delle altre variabili atmosferiche e che si sperava di osservare i primi segnali di recupero del buco dell’ozono nei prossimi decenni. Al netto di tali cambiamenti e piccoli successi, si prevede che i primi segnali concreti di recupero dello strato di ozono emergeranno nei prossimi decenni.

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GrapheneBreathe cattura e trasforma le emissioni di CO2 derivanti dagli allevamenti.  

By : Aldo |Dicembre 09, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su GrapheneBreathe cattura e trasforma le emissioni di CO2 derivanti dagli allevamenti.  

La lotta al cambiamento climatico risulta ed è spesso una lotta contro le emissioni di CO2 correlate alle attività antropiche. Si invita solitamente a ridurne la produzione e la conseguente emissione in qualsiasi ambito e settore. Tuttavia non è sempre semplice stare al passo con l’innovazione e godere delle nuove attrezzature per limitare i danni al pianeta. Fortunatamente e con grande sorpresa, la ricerca va avanti spedita e sta trovando un’ampia gamma di soluzioni per rimediare al problema.

Le emissioni degli allevamenti

Le problematiche legate alle emissioni degli allevamenti sono particolarmente gravi sia a livello globale che in Italia, dove il settore zootecnico contribuisce in modo significativo all’inquinamento atmosferico. In Italia, circa il 79% delle emissioni di gas serra nel settore agricolo proviene dagli allevamenti, con una predominanza di metano e ammoniaca. Le emissioni di metano, generate principalmente dalla digestione enterica degli animali, rappresentano quasi il 70% delle emissioni agricole totali e sono particolarmente elevate negli allevamenti di bovini. A livello europeo, gli allevamenti sono responsabili di oltre il 60% delle emissioni del comparto agricolo, evidenziando un trend preoccupante nonostante alcune riduzioni registrate negli ultimi decenni.

In particolare,  gli allevamenti intensivi sono la principale fonte di emissioni di ammoniaca in Italia, contribuendo al 75% del totale e alla formazione di polveri sottili, che hanno gravi ripercussioni sulla salute pubblica, causando circa 50.000 morti premature ogni anno. La situazione è particolarmente critica nelle regioni come la Lombardia, dove la densità degli allevamenti intensivi amplifica questi effetti negativi. Le pratiche di allevamento industriale non solo aumentano le emissioni di gas serra, ma comportano anche un uso insostenibile delle risorse agricole e idriche, oltre a favorire la diffusione di zoonosi e virus.

È chiaro quindi che, le emissioni degli allevamenti rappresentano una sfida significativa per la sostenibilità ambientale e la salute pubblica in Italia e nel mondo. Pertanto, sono necessari interventi urgenti per ridurre l’impatto ambientale di queste attività.

GrapheneBreathe

A tal proposito, GrapheneBreathe è la startup vincitrice della menzione speciale Green&Blue al Premio Nazionale Innovazione 2024 per il miglior progetto di impresa a impatto sul cambiamento climatico. Fondata grazie alla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, l’azienda sviluppa una tecnologia innovativa per la cattura e trasformazione delle emissioni di gas serra provenienti dagli allevamenti di bestiame, utilizzando avanzati sistemi di filtrazione a base di grafene. La soluzione proposta riduce l’impatto ambientale generando, al contempo, sottoprodotti utili come gas industriali, fertilizzanti a base di urea e crediti di carbonio, offrendo benefici sia agli allevatori che all’industria. Il progetto, realizzato in collaborazione con partner di ricerca e industriali, è guidato da un team composto da Pierluigi Simeone, Salvatore Cosmo Di Schino, Nadia Spinelli, Thi Ha Le e Francesco Siconolfi. Grazie alla combinazione di sostenibilità ambientale ed efficienza economica, GrapheneBreathe rappresenta un modello per le start-up innovative nel settore climatico.

Filtrazione della CO2.

GrapheneBreathe: Una Soluzione Innovativa per la Riduzione delle Emissioni Agricole

Il vantaggio competitivo di GrapheneBreathe risiede nella sua tecnologia di filtrazione avanzata basata su grafene, che offre un metodo versatile ed efficiente per catturare diversi gas nocivi (CO₂, metano, ammoniaca) direttamente dalle emissioni agricole. Questa innovativa applicazione della tecnologia di cattura delle emissioni conferisce all’azienda una posizione di leadership, superando i tradizionali approcci indiretti come gli additivi per mangimi. Il sistema di filtrazione a ossido di grafene, grazie alla sua elevata capacità di adsorbimento, garantisce un’efficace cattura dei gas, che possono poi essere riutilizzati economicamente, ad esempio come fertilizzanti o in altre applicazioni industriali.

Per supportare le aziende agricole nella riduzione dell’impatto ambientale, GrapheneBreathe propone tre soluzioni principali:

  1. Sistema di filtrazione modulare, basato su grafene, offrendo una soluzione scalabile che richiede un investimento iniziale contenuto da parte degli agricoltori.
  2. Modello di business con flussi di ricavi diversificati: la vendita e manutenzione dei sistemi di filtrazione, la commercializzazione diretta di gas industriali recuperati (CO₂, metano, ammoniaca), la vendita di crediti di carbonio certificati e la produzione di urea, in risposta alla crescente domanda di fertilizzanti sostenibili.
  3. Partnership strategiche per l’espansione del mercato collaborando con distributori di gas industriali, enti certificatori di crediti di carbonio e associazioni regionali di agricoltori per ampliare la propria presenza e offrire soluzioni efficaci e integrate.

Queste iniziative rendono GrapheneBreathe una soluzione pionieristica e concreta per affrontare le sfide ambientali del settore agricolo.

Premio Nazionale Innovazione 

Il Premio Nazionale per l’Innovazione 2024 (PNI 2024) si tiene il 5 e 6 dicembre presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Organizzato congiuntamente da PNICube e dall’ateneo ospitante, il PNI è la più importante competizione italiana di business plan, volta a selezionare i migliori progetti di start-up innovative provenienti dalle Start Cup regionali promosse dalla rete PNICube. L’iniziativa si articola su quattro settori chiave dell’innovazione: Cleantech & Energy, Life Sciences-MedTech, ICT e Industrial.

L’obiettivo principale del PNI è diffondere la cultura imprenditoriale tra ricercatori e studenti universitari, offrendo formazione specifica e supporto per la creazione di start-up. Inoltre, il premio facilita il collegamento tra i partecipanti e aziende o istituzioni finanziarie, agevolando il trasferimento tecnologico e l’incubazione di nuove idee imprenditoriali. L’iniziativa si allinea agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, promuovendo un’economia inclusiva e sostenibile.

I vincitori riceveranno premi in denaro, affiancati da riconoscimenti speciali offerti dai partner di PNICube. Tra le novità di questa edizione, spicca il Premio speciale INVITALIA per l’Imprenditoria Femminile, destinato alle start-up innovative guidate da donne. Questo riconoscimento mira a sostenere le ricercatrici e aspiranti imprenditrici, incentivando la nascita e la crescita di progetti imprenditoriali al femminile.

In sintesi, il PNI 2024 non è solo una celebrazione dell’innovazione, ma anche una piattaforma di networking e crescita per le competenze imprenditoriali, contribuendo a rendere l’ecosistema economico italiano più dinamico e inclusivo.

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Riad ospita la COP16 per lottare contro la desertificazione.

By : Aldo |Dicembre 05, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Riad ospita la COP16 per lottare contro la desertificazione.

COP, Summit, conferenze globali tutte per salvare il nostro pianeta.  Dopo che novembre ha accolto la COP29 a Baku e il Summit sull’inquinamento da plastica a Busan, a dicembre arriva la COP16 sulla desertificazione a Riad. Questi incontri internazionali hanno sempre dei grandissimi ed importanti obiettivi, ma spesso sembrano non avere l’impatto previsto. Ultimamente è stato difficile raggiungere gli obiettivi prefissati negli anni precedenti e spesso alcuni stati si oppongono a delle politiche necessarie per proteggere il pianeta e quindi noi stessi. Come andrà la COP16 a Riad, lo scopriremo prossimamente.

UNCCD

La Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD) è un accordo internazionale operativo dal 1996. Si tratta di un patto che mira a contrastare la desertificazione e gli effetti della siccità, specialmente nei paesi più colpiti, come quelli africani. Risulta essere l’unico strumento giuridicamente vincolante che integra ambiente, sviluppo sostenibile e gestione del territorio.

I suoi obiettivi principali sono:

  • Migliorare gli ecosistemi: Promuovere una gestione sostenibile del suolo e contrastare il degrado.
  • Condizioni di vita: Supportare le popolazioni colpite dalla desertificazione.
  • Gestione della siccità: Aumentare la resilienza di comunità ed ecosistemi.
  • Benefici ambientali globali: Garantire un’efficace attuazione della Convenzione.
  • Mobilitare risorse: Creare partenariati per finanziare e sostenere le azioni.

La Conferenza delle Parti (COP) è l’organo decisionale principale. La COP16 si terrà a Riyad, Arabia Saudita, dal 2 al 12 dicembre 2024, per definire nuove strategie contro il degrado del suolo, che interessa circa 15 milioni di km². La desertificazione è alimentata da cambiamenti climatici, pratiche agricole insostenibili e urbanizzazione, con effetti gravi come scarsità d’acqua, insicurezza alimentare, migrazioni forzate e conflitti. Pertanto, la UNCCD propone un approccio integrato, considerando le interazioni tra ambiente, economia e società. Negli anni, le Conferenze delle Parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD) hanno prodotto importanti risultati. Per esempio, le strategie per migliorare la resilienza alla siccità, ridurre il degrado del suolo e promuovere la gestione sostenibile delle risorse naturali.

La COP 11 (2013) sono stati sviluppati gli strumenti per raggiungere la neutralità del degrado del suolo (LDN) integrando scienza e politiche. Con la COP 13 (2017) ha introdotto un nuovo Quadro Strategico UNCCD e il Fondo LDN per progetti di restaurazione del suolo. Mentre la COP 15 (2022), ha adottato l’Abidjan Call per un impegno globale contro la desertificazione, ovvero una dichiarazione sull’uguaglianza di genere nella restaurazione del suolo. Ed anche il Programma Legacy, che mira a restaurare il 20% della copertura forestale della Costa d’Avorio entro il 2030.

Vediamo cosa ci aspetta dalla COP 16 di Riad.

 

La desertificazione nel mondo

La desertificazione e il degrado del suolo sono fenomeni in rapida crescita, con il 40% dei suoli globali già degradati a causa di attività antropiche, cambiamenti climatici, perdita di biodiversità e pratiche agricole intensive. Le conseguenze comprendono una crescente scarsità d’acqua, l’impoverimento dei raccolti e un aumento del rischio di fame per milioni di persone. La siccità, cresciuta del 30% dal 2000, potrebbe colpire il 75% della popolazione mondiale entro il 2050. Per affrontare questi problemi, la COP16 di Riad, organizzata dall’UNCCD, punta a raccogliere fondi e a promuovere soluzioni sostenibili.

COP 16

La sedicesima Conferenza delle Parti (COP16), in corso a Riad sotto la guida dell’UNCCD, evidenzia l’urgenza di intervenire con investimenti massicci per combattere il degrado dei suoli e rafforzare la resilienza alla siccità. L’UNCCD ha infatti stimato che tra il 2025 e il 2030 saranno necessari 2,6 trilioni di dollari, ovvero un miliardo al giorno, per bonificare i terreni degradati e prevenire crisi future. Nonostante i finanziamenti globali siano aumentati, passando da 37 miliardi di dollari nel 2016 a 66 miliardi nel 2022, la cifra è ancora insufficiente rispetto al fabbisogno reale. La questione finanziaria risulta dunque essere centrale, con un appello per un maggiore coinvolgimento del settore privato, che attualmente contribuisce solo al 6% delle risorse necessarie.

Durante la COP16, sono state presentate nuove tecnologie per il monitoraggio e la gestione del territorio. Tra queste, l’Atlante mondiale della siccità, sviluppato dal Centro di ricerca congiunto della Commissione europea. E poi e il prototipo dell’International Drought Resilience Observatory (Idro) che promette di migliorare la gestione delle risorse attraverso l’intelligenza artificiale. Inoltre, gli interventi basati sulla natura, come la riforestazione e la gestione sostenibile dei pascoli, sono considerati essenziali per affrontare il problema. Questi strumenti tecnologici e approcci integrati potrebbero contribuire a mitigare i rischi sistemici per settori cruciali come agricoltura, energia e trasporti. Senz’altro si punta al ripristino dei suoli, accelerando la bonifica di almeno 1,5 miliardi di ettari entro il 2030.

Impatto in Italia e nel Mediterraneo

Si parlerà ovviamnete anche dell’Italia, dove oltre il 20% del territorio è a forte rischio di desertificazione, con punte che superano il 70% in regioni come la Sicilia. Anche il consumo di suolo è allarmante, visto che ogni anno vengono persi 70 chilometri quadrati di territorio, l’equivalente di una città come Napoli. Questa perdita comporta una riduzione della capacità del suolo di trattenere acqua, causando costi annui pari a 400 milioni di euro. Precisamente, le aree urbane sono particolarmente colpite, con meno spazi verdi accessibili e un aumento della cementificazione. Quindi, investire in tecnologie per il risparmio idrico e il ripristino dei suoli è fondamentale per mitigare gli impatti nel Mediterraneo e in tutto il paese.

Non ci resta che aspettare gli output di questa conferenza cruciale per il futuro di tutti, sperando che non sia l’ennesima delusione dell’anno.

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Nessun nuovo accordo globale sull’inquinamento da plastica. Il vertice di Busan 2024 fallisce.

By : Aldo |Dicembre 02, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Nessun nuovo accordo globale sull’inquinamento da plastica. Il vertice di Busan 2024 fallisce.

La produzione di plastica è aumentata di 200 volte dal 1950, con proiezioni che indicano un possibile raddoppio dell’inquinamento entro il 2040. Le microplastiche, ormai onnipresenti negli ecosistemi e persino negli organi umani, rappresentano una minaccia per la salute e la biodiversità. Per tali ragioni, è necessario trovare un accordo globale per limitare e cercare di ridurre per quanto possibile, i danni correlati a tale questione.

Trattati sulla plastica

Il Trattato globale sull’inquinamento da plastica, avviato nel marzo 2022 con l’adesione di 175 nazioni durante l’Assemblea ambientale delle Nazioni Unite (UNEA-5.2). Grazie all’istituzione del Comitato intergovernativo di negoziazione (INC),  punta a regolamentare l’intero ciclo di vita della plastica entro il 2024. Tra i suoi obiettivi principali figurano la riduzione della produzione di plastica vergine, la promozione dell’economia circolare e il controllo delle microplastiche. La “Bozza Zero”, presentata nel settembre 2023, è alla base dei negoziati, sostenuti da coalizioni internazionali ma ostacolati dai contrasti con alcuni Paesi produttori di petrolio.

Nonostante il sostegno internazionale, il successo del trattato dipende dalla cooperazione globale e dalla capacità di superare le divergenze politiche. Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, ha ribadito l’urgenza di un accordo ambizioso e vincolante per affrontare questa crisi ambientale.  La prossima sessione dell’INC, fissata per aprile 2025, sarà decisiva per confermare l’efficacia delle misure proposte.

Le basi per Busan 2024

A Busan, in Corea del Sud, si è svolto il quinto e ultimo ciclo di negoziati per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica. L’incontro, durato una settimana, dal 25 novembre al 1° dicembre, che riunisce i delegati di 175 Paesi, rappresenta un’opportunità cruciale per affrontare un problema crescente. La produzione di plastica è aumentata di 200 volte dal 1950, con proiezioni che indicano un possibile raddoppio dell’inquinamento entro il 2040. Mentre le microplastiche, ormai onnipresenti negli ecosistemi e persino negli organi umani, rappresentano una minaccia per la salute e la biodiversità.

Ogni anno, circa 20 milioni di tonnellate di plastica finiscono nell’ambiente. Nonostante le promesse di sostenibilità, solo il 10% della plastica viene riciclata a livello globale, mentre la metà dei prodotti plastici viene destinata alle discariche. Tuttavia, le divisioni fra Paesi produttori di combustibili fossili e quelli che cercano di ridurre la produzione di plastica vergine ostacolano i progressi verso un accordo internazionale.

Le difficoltà nei negoziati

Gli ultimi negoziati per il Trattato globale sulla plastica hanno fallito a causa o forse soprattutto per le divisioni tra i Paesi, che continuano a bloccare il dialogo, bloccando qualsiasi intesa entro la scadenza del 1° dicembre.  Purtoppo il dibattito a Busan è ruotato attorno visioni contrapposte: Paesi come Arabia Saudita, Iran e Russia si sono opposti alla limitazione della produzione di plastica vergine, mentre nazioni dell’UE, insieme a Svizzera e Fiji, hanno continuato a sostenere una riduzione sostenibile.

L’Arabia Saudita, uno dei principali produttori di petrolio e prodotti petrolchimici, è accusata di ostacolare deliberatamente i negoziati. Questo perché ha mantenuto posizioni immutate e rallentato i progressi, mentre altri Paesi produttori di idrocarburi e lobby legate all’oil&gas hanno esercitato un’influenza significativa. Anche Anche gli Stati Uniti erano per la riduzione della produzione di plastica vergine, ma l’influenza di politiche basate sui combustibili fossili rischia di compromettere il loro impegno. La sola speranza di molti è che la Cina possa assumere un ruolo di leadership per facilitare un’intesa.

Tuttavia, le regole ONU, richiedono il consenso unanime, è questo ha portato allo stallo e al fallimento di cui siamo a conoscenza oggi.

Proposte e punti di disaccordo

Proprio per evitare lo stallo prevedibile, la delegazione di Panama ha persino proposto di abbandonare questa regola per accelerare il processo, ma senza successo. Dunque, l’ultima bozza dell’accordo non raggiunto, era ancora piena di opzioni e mancava di compromessi significativi. Perciò gli esperti dell’UNEP hanno sottolineato l’importanza di un approccio basato sul ciclo di vita della plastica, includendo la gestione dei rifiuti e la promozione di modelli di consumo sostenibili.

Sebbene le premesse fossero chiare, tra i punti di disaccordo, quindi i temi più caldi che presentano ancora 22 opzioni aperte, si riportano:

  • la riduzione della produzione globale di plastica,
  • la definizione di prodotti pericolosi per la salute
  • finanziamento per i Paesi in via di sviluppo per sistemi di gestione dei rifiuti.

Inoltre, alcune nazioni, tra cui Francia e Kenya, hanno proposto un’imposta sulla plastica vergine per raccogliere fondi destinati ai Paesi in via di sviluppo, con una tariffa tra 60 e 70 dollari per tonnellata. Ovviamente, l’idea è stata fortemente osteggiata dalle associazioni industriali.

Senza contare, gli argomenti che prevedono delle visioni basilari contrastanti per via delle leggi internazionali, oppure che prevedono 2 soluzioni convergenti. Sicuramente è necessario stabilire quale approccio usare, se quello massimalista, che prevede limiti alla produzione di plastica (articolo 6), o quello minimalista, focalizzato esclusivamente sul potenziamento del riciclo. E poi bisogna ragionare  su un secondo contrasto tra il principio “chi inquina paga”, il diritto di ogni Paese a utilizzare le proprie risorse naturali come ritiene opportuno.

Accuse e malcontento generale.

Il vertice di Busan, dunque, si è concluso senza un accordo per il Trattato globale sulla plastica. Ovviamente questo ha portato a delle grandi accuse e delusioni. In primis, il diplomatico ecuadoriano Luis Vayas Valdivieso ha sottolineato come i negoziati siano stati rallentati da tattiche dilatorie, come 60 interventi di cinque minuti per modificare una frase. Secondo l’OCSE, senza interventi, l’inquinamento da plastica triplicherà entro il 2060, con la produzione globale che potrebbe crescere da 460 milioni di tonnellate nel 2019 a 1,2 miliardi di tonnellate.

La Coalizione delle Alte Ambizioni ha criticato l’ostruzionismo dei paesi petroliferi e Greenpeace ha denunciato gravi conseguenze per l’ambiente, ma alcuni delegati, come quelli di Norvegia e Ruanda, hanno segnalato progressi nel testo preliminare. La prossima sessione, prevista nel 2025, non ha ancora una data o sede, con Canada e Francia che chiedono un incontro a livello governativo.

 

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Cop29, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Stop ai petro-stati come host delle COP.

By : Aldo |Novembre 28, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Cop29, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Stop ai petro-stati come host delle COP.

La COP29, svoltasi a Baku dall’11 al 27 novembre 2024, si è svolta in un contesto di tensioni geopolitiche. Tra resistenze dei Paesi ricchi a finanziare adeguatamente il Sud globale, la crescente sfiducia nel processo multilaterale e una presidenza controversa affidata a un petro-stato. Il focus esclusivo della conferenza è stato il New Collective Quantified Goal (NCQG), mirato a definire i flussi finanziari necessari per sostenere la transizione ecologica nei Paesi in via di sviluppo.

Risultati Principali

Per quanto riguarda la finanza climatica, il target è stato fissato a 300 miliardi di dollari annui a partire dal 2035, una cifra lontana dai 1.300 miliardi richiesti dal Sud globale. Di questi, solo i 300 miliardi sono vincolanti, mentre il resto rimane un’aspirazione, un invito senza obblighi concreti. Tuttavia mancano chiarezza e sicurezza sulle fonti finanziarie, che includono privati e bilaterale. È stato però confermato il principio di non indebitamento per i Paesi poveri e istituita una roadmap per raggiungere l’obiettivo più ambizioso, sebbene priva di dettagli concreti.

Il tema della parità di genere ha ricevuto scarsa attenzione. Non si è raggiunto un accordo sull’estensione del piano d’azione, e le richieste di finanziamenti dedicati sono state respinte dai Paesi ricchi. Divisioni linguistiche hanno portato alla rimozione di termini come “intersezionalità”, mantenendo solo riferimenti generici ai diritti umani.

Sebbene dopo nove anni di attese, sono state adottate delle regole per il mercato dei carbon credit attese, il sistema rimane incompleto e insufficiente. Sul fronte della mitigazione climatica, non si è raggiunto alcun accordo concreto sulla transizione dai combustibili fossili, con il tema rinviato alla COP30. Si è evitato però un riferimento ambiguo ai “combustibili di transizione” come il gas naturale.

 

Criticità e Insoddisfazioni

Il Sud globale ha espresso insoddisfazione per la scarsità dei fondi stanziati e per l’assenza di impegni concreti. Temi fondamentali come la mitigazione climatica e la parità di genere sono stati affrontati in modo marginale o rinviati, evidenziando il peso delle lobby fossili, che hanno ostacolato i progressi e aggravato le già delicate tensioni geopolitiche.

Il target finanziario include una considerevole quota di prestiti, una scelta particolarmente contestata dai Paesi in via di sviluppo. Nonostante l’impegno a triplicare i finanziamenti ai fondi ONU entro il 2030 e a riesaminare il tema alla COP30, queste misure sono state giudicate insufficienti. L’India, in particolare, ha criticato il processo decisionale, denunciando l’approvazione del testo finale senza un consenso condiviso.

Prospettive Future

La COP30, che si terrà in Brasile, rappresenterà un momento decisivo per affrontare temi rinviati come la mitigazione climatica. Attori centrali come l’Unione Europea, la Cina e il Brasile stesso, avranno un ruolo strategico a Belém 2025. Mentre l’UE intende garantire finanziamenti non legati a nuovo debito, la Cina prosegue con progetti bilaterali senza vincoli multilaterali, Brasile, in qualità di ospite, sarà il mediatore tra Nord e Sud globale.

Un elemento chiave sarà il coinvolgimento del settore privato, incoraggiato a investire in progetti sostenibili e rispettosi delle comunità locali, senza generare nuovo debito. Sebbene l’accordo della COP29 sia stato considerato debole, come un bicchiere mezzo vuoto, non è stato totalmente vuoto. Infatti potrebbe costituire una base di partenza per il futuro, che tuttavia richiederà un rafforzamento della volontà politica e un maggiore impegno privato.

Sembra assurdo affermarlo, ma sembra che ogni anno, più si ha la consapevolezza scientifica e pratica dei cambiamenti e più ogni anno cresce l’indifferenza di certe popolazioni. Non a caso, certi processi sono resi più complicati dalla possibile nuova uscita degli USA dall’Accordo di Parigi e dal negazionismo di vari capi di stato.

Senz’altro è fondamentale che si cambi rotta anche per quanto riguarda gli host. Non è più accettable che i petro-stati possano ospitare dei summit globali di questo genere, in quando hanno un’influenza rilevante che da 3 anni si impone sugli accordi, con velate intimidazioni e degli obiettivi insufficienti o poco concreti.

Già lo scorso anno, Al Gore aveva criticato aspramente gli Emirati Arabi Uniti per aver nominato Sultan al-Jaber, CEO di ADNOC, presidente della Conferenza. Definì tale atto, come un abuso della fiducia pubblica accusando la leadership della conferenza di non essere imparziale. Inoltre, evindenziò l’aumento delle emissioni di gas serra degli Emirati nel 2022, sottolineando il conflitto d’interessi nella gestione delle negoziazioni sul clima. Gore criticò inoltre la presenza delle compagnie petrolifere e la promozione di tecnologie come la cattura del carbonio, accusando queste aziende di proteggere i loro profitti a scapito della salute del pianeta.

  

Nonostante i limiti, la COP29 ha evitato un fallimento totale e ha posto le basi per il futuro, ma la strada verso una vera transizione ecologica rimane difficile, richiedendo determinazione, rigore scientifico e capacità di adattamento.

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Conoscere l’impatto della moda è fondamentale, come saper riciclarne i tessuti.

By : Aldo |Novembre 24, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Conoscere l’impatto della moda è fondamentale, come saper riciclarne i tessuti.
riciclo-tessuti

Il fenomeno del fast fashion ha un impatto sempre più rilevante col passare degli anni, nonostante le inchieste che lo condannano per molteplici cause. Tutti sappiamo come sta inquinando acque, suoli, l’aria, per non parlare dello sfruttamento umano e minorile, ma continuiamo a comprare dalle stesse aziende. Quindi sempre per il concetto dell’economia circolare e quindi di una maggiore sostenibilità, sarebbe opportuno far capire in modo concreto, come e quanto inquinano i nostri abiti. Ma soprattutto come possiamo riciclarli grazie alle nuove tecnologie e alla creatività.


L’impatto del fast fashion

Il fast fashion ha un impatto ambientale significativo, non solo per la produzione intensiva e il rapido ricambio di capi d’abbigliamento, ma anche per le conseguenze nascoste legate al lavaggio dei tessuti sintetici. Infatti molti abiti economici sono realizzati con materiali come il poliestere, che durante i lavaggi rilasciano microfibre di plastica nell’acqua. Queste particelle microscopiche, nei fiumi e negli oceani, contribuendo all’inquinamento marino e minacciando gli ecosistemi acquatici. Pertanto la loro dispersione è un problema silenzioso ma diffuso, aggravato dall’enorme quantità di vestiti prodotti e consumati, che richiede un’attenzione maggiore sia da parte dei produttori che dei consumatori.

Di certo per limitare tali problematiche è fondamentale un’adeguata sensibilizzazione del consumatore. Quest ultimo infatti deve essere consapevole di cosa compra e dell’impatto che hanno i prodotti che acquista. Così facendo è più probabile che si possa avere un cambio di direzione, raggiungendo nuovi obiettivi comuni. Analogamente è cruciale la consapevolezza che i prodotti che acquistiamo possono, anzi, devono essere riusati e riciclati. In entrambi i casi, i cittadini non sono chiamati a creare delle nuove strategie, ma semplicemente ad essere informati e a optare per le soluzioni migliori.

 

L’etichetta dell’impatto

Chi invece è chiamato a fare la differenza sono gli studiosi e i ricercatori di tutto il mondo che giorno dopo giorno trovano soluzioni e innovazioni per aiutarci a salvare il mondo. In questo caso parliamo di un’etichetta per vestiti abbastanza particolare, unica nel suo genere.

Infatti, due ricercatrici della Heriot-Watt University, Sophia Murden e Lisa Macintyre, hanno sviluppato un sistema per classificare i capi d’abbigliamento in base alla quantità di microplastiche che rilasciano. L’obiettivo è creare un’etichetta informativa che permetta di valutare l’impatto ambientale dei tessuti in modo semplice e immediato. Attualmente, i metodi disponibili per misurare il rilascio di microfibre, come quelli gravimetrici, sono complessi e costosi, dunque le ricercatrici propongono un approccio più accessibile e altrettanto accurato. Il loro metodo si basa su lavaggi in laboratorio, seguiti dall’analisi dei residui filtrati con il supporto di una scala visiva simile a quella usata per valutare le gradazioni di grigio.

Inizialmente testata sul poliestere nero, questa tecnica ha mostrato risultati comparabili ai metodi tradizionali. Le ricercatrici auspicano che le aziende adottino materiali più sostenibili e che i consumatori possano fare scelte consapevoli grazie a un’etichetta basata su questa scala. Tuttavia, è ancora necessario ampliare i test ad altri tipi di fibre e colori per perfezionare il sistema.


Il riciclo creativo

Come già detto, oltre all’innovazione serve una grande attività di riciclo che non riguarda solo i cittadini ma anche e forse soprattutto le aziende. Non a caso di recente nascono tante idee per far si che si buttino sempre meno capi d’abbigliamento, aumentando il tasso di riciclo soprattutto per mezzo di processi creativi. Un esempio è Pulvera, una startup fondata dalle sorelle Eleonora e Beatrice Casati, che trasforma scarti tessili in materiali innovativi e soluzioni di design sostenibile. Ispirate alla creatività del bisnonno Celso Casati, che negli anni ’40 sperimentò il riutilizzo delle fibre tessili, le due sorelle hanno sviluppato un modello di economia circolare per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile. Pulvera collabora con aziende per recuperare e trasformare scarti in polvere utilizzabile in vari settori, come la produzione di carta e plastica.

Tra i loro progetti di design, spicca “Cremino”, un pouf realizzato con materiali derivati da vecchi materassi, che dimostra come sia possibile creare nuovi prodotti evitando lo spreco di risorse. Le sorelle Casati, legate al valore della sostenibilità, promuovono uno stile di vita rispettoso dell’ambiente anche nella loro quotidianità. Guardano al futuro puntando a consolidare la presenza sul mercato italiano e ampliarsi in Europa, proponendosi come punto di riferimento per il riciclo nel settore tessile.

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COP29. Emissioni non pervenute, fondi insufficienti e ancora tanti “inviti”.

By : Aldo |Novembre 23, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su COP29. Emissioni non pervenute, fondi insufficienti e ancora tanti “inviti”.

Arrivati alla conclusione di questa 29 esima conferenza, la situazione globale è cambiato poco. Gli interessi dei vari stati non sembrano coincidere e in certi casi le sfide climatiche non preoccupano proprio.
Al netto di tutto quello che è stato discusso nelle due settimane di conferenza, i risultati generali non fanno ben sperare. Ecco i punti sviluppati e i nuovi accordi.

 

Il “clima” della COP

COP29, Baku 2024, il clima dei negoziati non è mai stato così teso, con una bozza di accordo che ha suscitato forti critiche da parte di rappresentanti dell’Unione Europea e di paesi sviluppati. Dopo le prime proposte messe in tavola dai vari delegati, Woepke Hoekstra, capo della delegazione UE, aveva definito il testo “sbilanciato” e “inattuabile”. Questo perché il documento non affrontava adeguatamente la riduzione delle emissioni di gas serra rispetto agli impegni presi a Dubai l’anno precedente. Anche l’Australia ha espresso preoccupazioni simili.

Dall’altra parte, i leader africani del Gruppo dei 77 più Cina hanno evidenziato l’assenza di un importo specifico che i Paesi ricchi dovrebbero versare ai Paesi in via di sviluppo. Evidenziando tale questione hanno chiesto un contributo annuale di almeno 1,3 trilioni di dollari così da trattare con cifre concrete e non ipotetiche.  Invece il ministro italiano dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha insistito sulla necessità di non fermarsi solo alla finanza, ma di discutere anche sulla mitigazione.

A questo punto la bozza presentata prevedeva due opzioni ministeriali contrastanti:

  • La prima stabiliva un obiettivo collettivo per la finanza climatica, richiedendo ai Paesi sviluppati di fornire almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno in sovvenzioni a fondo perduto.
  • La seconda, proponeva un aumento della finanza globale per il clima a un importo non specificato (X trilioni) per tutti i Paesi, inclusi quelli in via di sviluppo.

Tuttavia, il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha avvertito che le posizioni iniziali delle delegazioni sarebbero dovute cambiare per raggiungere un accordo il prima possibile. Nonostante, la presidenza azera era alla ricerca di un compromesso prima della conclusione della conferenza, l’assenza di una forte leadership americana e le tensioni tra Nord e Sud globale hanno reso incerta la possibilità di un risultato positivo. Ovviamente, la Cina avrebbe avuto un ruolo cruciale nel determinare l’esito dei negoziati.

Nuovi accordi e patti consolidati

Gli ultimi aggiornamenti sui negoziati della COP29 sono arrivati e sembrano puntare ad un accordo significativo.

Sicuramente il primo obiettivo è quello richiesto dai Paesi in via di sviluppo come essenziale per affrontare la crisi climatica. Infatti, si tratta di raggiungere 1.300 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima entro il 2035. Nello specifico la bozza prevede che i Paesi sviluppati contribuiscano con 250 miliardi di dollari all’anno, un aumento rispetto al precedente impegno di 100 miliardi.


Successivamente si può evidenziare un importante cambiamento con l’inclusione di nuovi donatori nella bozza. Questo significa che i Paesi in via di sviluppo sono “invitati” contribuire senza compromettere il loro status, permettendo così anche a nazioni come Cina e India di partecipare come donatori. Nonostante ciò, l’accordo riconosce la necessità di risorse pubbliche e finanziamenti altamente agevolati, in particolare per i Paesi più vulnerabili.

Critiche e dubbi

Le decisioni prese durante la COP29 hanno sollevato dubbi e critiche, soprattutto per quanto riguarda gli impegni finanziari dei Paesi sviluppati nei confronti di quelli in via di sviluppo. Nonostante i progressi, l’importo proposto di 250 miliardi di dollari è stato giudicato insufficiente per affrontare le sfide climatiche globali. Le stime indicano che i Paesi in via di sviluppo necessiteranno tra 5.100 e 6.800 miliardi di dollari entro il 2030, con ulteriori costi di adattamento annuali stimati tra 215 e 387 miliardi di dollari, ma non sono stati fissati impegni vincolanti per colmare questo divario.

Altre critiche riguardano l’eliminazione di riferimenti importanti, come le emissioni storiche e il PIL pro-capite, che avrebbero potuto garantire una maggiore equità nella distribuzione degli oneri. Anche sul fronte dei diritti umani, i riferimenti alle categorie vulnerabili restano vaghi, senza indicazioni concrete su come garantire loro accesso prioritario ai fondi.

Esponenti come Ali Mohamed, capo delegazione del gruppo africano, hanno definito l’importo proposto gravemente insufficiente, avvertendo che porterà a perdite inaccettabili. Gli esperti chiedono che gli obiettivi finanziari siano aumentati per rispettare gli impegni dell’Accordo di Parigi. La conferenza ha messo in evidenza il divario tra le aspettative dei Paesi in via di sviluppo e gli impegni dei Paesi sviluppati, in attesa di un documento finale che potrebbe delineare nuove direzioni per i negoziati.

Proteste

Anche quest’anno non sono mancate proteste proteste e campagne per evidenziare le profonde ingiustizie climatiche e la necessità di azioni più decise contro le aziende di combustibili fossili. Tra queste, la campagna #PaybackTime, sostenuta da celebrità come Jude Law e promossa da Global Witness, ha puntato il dito contro le multinazionali del settore energetico, accusate di generare enormi profitti a scapito del Pianeta. Con un guadagno di 4 trilioni di dollari nel 2022, queste aziende sono state esortate a contribuire ai costi dei danni climatici, che colpiscono in modo sproporzionato i Paesi in via di sviluppo. L’iniziativa ha incluso l’uso provocatorio del dominio cop29.com per denunciare i dirigenti delle aziende fossili, evidenziando la loro responsabilità diretta nella crisi climatica.

Parallelamente, movimenti come Fridays for Future e Greenpeace hanno organizzato manifestazioni per chiedere una transizione energetica più ambiziosa e per denunciare l’iniquità nei finanziamenti climatici. I manifestanti hanno sottolineato il paradosso di promuovere azioni climatiche mentre si continuano a sostenere nuove infrastrutture per carbone, petrolio e gas. Le proteste hanno anche evidenziato l’esclusione di gruppi vulnerabili e comunità indigene dai benefici delle politiche climatiche.

Figure simboliche come Greta Thunberg hanno criticato la mancanza di coerenza tra le promesse dei leader e le azioni concrete, definendo la COP29 un’occasione mancata. Eventi simbolici, come un “funerale climatico” organizzato da rappresentanti di Paesi insulari come Vanuatu e Tuvalu, hanno ricordato i rischi imminenti legati all’innalzamento del livello del mare, richiamando l’urgenza di un cambiamento.

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COP 29. Affermazioni e primi risultati, sembrano non dare speranze.

By : Aldo |Novembre 14, 2024 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su COP 29. Affermazioni e primi risultati, sembrano non dare speranze.

La COP29, si è aperta a Baku, Azerbaijan, puntando i riflettori sui complessi equilibri tra la necessità di azioni concrete e gli interessi geopolitici legati all’industria energetica. Quindi la conferenza rappresenta un momento cruciale per discutere politiche e misure ambientali essenziali per contenere il riscaldamento globale. Tuttavia, la presenza di molteplici attori del settore fossile ha sollevato tanti sull’effettiva volontà di operare un cambio di rotta.

Le Priorità

L’istituzione di un mercato globale dei crediti di carbonio è una delle principali priorità della COP29. Questo sistema consentirebbe ai Paesi di comprare e vendere diritti di emissione di CO₂ per raggiungere obiettivi di riduzione delle emissioni. Nonostante ciò, tale meccanismo è oggetto di critiche, poiché è visto come una forma di “neocolonialismo ambientale”. Infatti, le comunità dei Paesi in via di sviluppo, coinvolte spesso senza tutele, rischiano gravi impatti a causa di progetti di compensazione delle emissioni. Il suddetto sistema, inoltre, potrebbe facilitare il “greenwashing” da parte delle grandi aziende inquinanti dei Paesi più ricchi. Questi ultimi utilizzerebbero i crediti per compensare le proprie emissioni senza un reale impegno nella loro riduzione. Pertanto, trovare un accordo equo ed efficace che incentivi investimenti concreti nelle energie rinnovabili rimane complesso. Senz’altro il dibattito tra i delegati sottolinea quanto sia controverso bilanciare interessi economici e obiettivi ambientali.

Finanza climatica e il “Loss and Damage Fund”

Alla COP29, la finanza climatica è uno dei temi più discussi, con un’attenzione particolare al “Loss and Damage Fund”, un fondo progettato per supportare le nazioni più vulnerabili di fronte agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. Questo fondo mira a fornire assistenza economica per compensare i danni e sostenere piani di adattamento nei Paesi che, per mancanza di risorse, non possono far fronte da soli alle catastrofi climatiche. António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha sottolineato l’urgenza di attivare rapidamente il fondo, avvertendo che un ritardo nelle azioni di supporto potrebbe avere conseguenze globali.

Le Banche Multilaterali di Sviluppo (MDB) si sono impegnate a destinare circa 170 miliardi di dollari per sostenere progetti di sostenibilità, con la maggior parte dei fondi indirizzata a Paesi a medio e basso reddito. Tuttavia, restano incertezze sulla trasparenza e l’effettiva tracciabilità di questi finanziamenti, sollevando preoccupazioni sulla capacità di tali risorse di produrre un reale impatto per le comunità più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici.

I Piani di adattamento

Alla COP29, i piani di adattamento sono stati messi in primo piano come risposta urgente alla crescente vulnerabilità delle nazioni esposte agli eventi climatici estremi. Adattarsi significa creare infrastrutture resilienti, gestire in modo sostenibile le risorse naturali e sviluppare sistemi agricoli capaci di affrontare condizioni climatiche imprevedibili. Nonostante la discussione di diversi progetti in questa direzione, rimangono dubbi sulla capacità dei Paesi con economie più fragili di implementare efficacemente tali strategie senza il supporto costante delle nazioni più ricche.

La conferenza sottolinea inoltre l’importanza di approcci integrati e su misura, che considerino le specificità locali e le risorse disponibili nelle comunità più a rischio. Gli studi preparatori alla COP29 indicano che, senza piani di adattamento ben strutturati, molte regioni potrebbero trovarsi di fronte a difficoltà crescenti e potenzialmente insostenibili in un futuro non troppo lontano.

Il Sondaggio Amref

Un sondaggio recentemente condotto da Amref Health Africa ha evidenziato una preoccupazione diffusa riguardo agli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute pubblica, con l’83% degli intervistati che considera la crisi climatica una delle principali minacce per la salute. Questo risultato riflette la crescente consapevolezza, in particolare tra le popolazioni africane, dei danni causati da eventi climatici estremi come siccità e alluvioni, che colpiscono in modo più severo le comunità più vulnerabili. La ricerca ha anche sottolineato la necessità di politiche sanitarie più incisive e investimenti nel settore della sanità pubblica per affrontare le sfide emergenti legate al clima.

Questi dati evidenziano l’urgenza di integrare le questioni sanitarie nelle discussioni sui cambiamenti climatici e nella pianificazione delle politiche future. La salute deve essere considerata un aspetto cruciale nelle strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, con un focus particolare sulla protezione delle comunità più esposte.

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