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Polemiche, risultati e finanziamenti; un primo bilancio della COP 28.

By : Aldo |Dicembre 08, 2023 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Polemiche, risultati e finanziamenti; un primo bilancio della COP 28.

È passata una settimana dall’inizio della 28a COP e già tanti punti sono stati sviluppati, rivisti, approvati e criticati. Chiunque sia interessato direttamente o indirettamente a questo argomento è pronto ad affrontare i prossimi giorni, nella speranza dell’approvazione di documenti che possano fare la differenza.

I punti principali

La COP 28 come anche le altre, è iniziata con la determinazione di una serie di punti da chiarire e di questioni per le quali servono soluzioni concrete. Dunque, sono state stabilite quattro grandi aree di azione che includono ulteriori sottoschemi quali:

  • La campagna Fossil to Clean, avanzata da 131 aziende, coordinate da “We Mean Business Coalition” e dai suoi partner.
  • Un’alleanza per la decarbonizzazione, con l’obiettivo di trovare un accordo tra Stati per un piano di transizione energetica che punti a delineare come catturare e stoccare la CO2 che oggi è in eccesso.
  • L’impegno degli Stati per il clima.
  • Il sostegno finanziario ai Paesi emergenti.
  • L’impegno disatteso di 100 miliardi all’anno per sostenere la transizione ecologica dei Paesi emergenti.
  • L’impatto sociale, focalizzandosi sull’aspetto sociale della transizione energetica favorendo l’inclusione.
  • Adattarsi al cambiamento climatico attraverso l’Adaptation Agenda di Sharm-el-Sheikh che ha l’obiettivo di migliorare la resilienza di quattro miliardi di persone nelle regioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici
  • Piani di adattamento nazionali

     

Iniziare col piede sbagliato

Da tempo l’apertura delle COP è preceduta da una serie di polemiche più o meno condivisibili. Queste sono dettate dal fatto che dopo 28 anni, ancora non siano stati realizzati degli impegni fondamentali e quasi sembra non esserci un risvolto positivo. Così anche quest’anno, la pioggia di critiche è arrivata ed era indirizzata su vari argomenti e scelte discutibili per la conferenza più importante del 2023.

    

Per prima cosa si è discusso della scelta della Presidenza ed alla presenza elevata di rappresentanti dell’industria petrolifera. Si contano ben 2.500 su 80mila partecipanti, secondo la ong Global Witness, una percentuale troppo alta per alcuni, e ambigua rispetto al contesto di sostenibilità. Tra questi si può citare per l’appunto, il presidente della conferenza Sultan Al-Jaber, amministratore delegato del colosso petrolifero Adnoc.

     

Come se questo non bastasse, la plenaria è iniziata in un tunnel buio, visti gli studi dell’Unfcc relativa al Global Stocktake. L’iniziativa che prevede il check della situazione attuale e delle iniziative da implementare presentava una realtà molto tetra che ha scaturito molte lamentele. I dati scientifici confermano che ci avviamo verso 2,6 gradi di riscaldamento globale e che quindi dobbiamo tagliare le emissioni del 43% entro il 2030 e del 60% nel 2035. Proprio legato a questo, si è discusso molto del “phase out” dei combustibili fossili, per il quale sono favorevoli i governi occidentali.  Al contrario, i grandi produttori di petrolio e gas, come l’Arabia Saudita e la Russia si sono opposti.

   

Numeri e accordi raggiunti

Passando oltre le polemiche iniziali, gli interventi clamorosi del presidente, i ripensamenti e le ambiguità, si trova molto da raccontare. Una parte positiva di questa 28° conferenza è sicuramente la velocità con la quale certi fondi sono stati creati o attivati.

 

Primo tra tutti il fondo Loss and Damage. Esattamente il primo giorno di Cop28 è arrivato l’accordo sul fondo annunciato alla COP27, diventando così operativo sotto sotto la gestione della Banca Mondiale. Si tratta forse del risultato più importante per velocità di realizzazione e fondi: conta ben oltre 726 milioni di dollari. Soprattutto poiché a sopresa di tutti, l’Italia ha promesso 100 milioni di euro, diventando uno dei maggiori contributori insieme a Francia, Germania ed Emirati.

   

Successivamente si parla delle rinnovabili, con un testo firmato da 123 Paesi i quali si impegnano a triplicare le rinnovabili e aumentare l’efficienza energetica. L’obiettivo è quello di arrivare a 11.000 GW e per raggiungerlo, l’UE ha annunciato un impegno da 2,3 miliardi di euro per la transizione. Per ora sono stati impegnati ben 6,8 miliardi per l’energia. A tale argomento si può affiancare il nucleare, per il quale 22 Paesi hanno firmato un documento. In questo caso l’obiettivo è quello di triplicare la capacità di produzione nucleare nel mondo; tuttavia, resta un tema che mette in disaccordo molti. Resta a lunghissimo raggio la scommessa sulla fusione (abbracciata dall’Italia), per la quale l’orizzonte viene indicato tradizionalmente al 2040-2050.

   

Per il Green Climate Fund (2010), sono stati raccolti 3,5 miliardi di dollari (di cui 3 dagli USA), su un tetto di 13 miliardi. Il patto è stato sottoscritto da soli 25 Paesi. E poi ancora si parla di salute. Con tale documento, i 121 Stati firmatari si impegnano nella riduzione delle emissioni nel settore e sulla considerazione dell’impatto sulla salute delle persone della crisi climatica. 

 

Infine, si è trattato un settore fondamentale, quello dell’agricoltura e del cibo. Si tratta del testo firmato da più Nazioni, 134 per la precisione. L’idea è quella di integrare il settore nei propri piani climatici nazionali, avendo questo un ruolo nella cattura del carbonio e non solo. È responsabile di una grossa quota di emissioni

    

Non è tutto

Dall’inizio della COP, sono stati raggiunti 83 mld di euro di investimenti tra tutti gli impegni previsti. Oltre a quelli già riportati, sono stati raggiunti:

  • 61,8 miliardi per la finanza
  • 8,5 miliardi per le comunità
  • 1,7 miliardi per l’inclusione
  • 134 milioni per l’Adaptation fund
  • 123 milioni per i Paesi meno sviluppati
  • 31 miloni per lo Special climate change fund.

Inoltre 11 promesse e dichiarazioni sono state lanciate e hanno ricevuto un enorme sostegno. Come, per esempio, il rapporto scientifico intitolato “Global Tipping Point” redatto da più di 200 scienziati, che avverte sui “punti di non ritorno” climatici. Oppure la “Dichiarazione congiunta sull’urbanizzazione e il cambiamento climatico” sostenuta da 40 ministri. Propone un piano in 10 punti per integrare l’azione climatica a tutti i livelli di governo e incrementare i finanziamenti urbani per il clima.

    

Mentre continua ad essere oggetto di discussione il “phase out” dei combustibili fossili, per il quale è stato proposto un “phase down”. Tutto ciò nonostante la conferma che il 2023 sarà l’anno più caldo della storia e che a novembre sono state raggiunte temperature record. L’aggiunta del paragrafo 36, che riconosce la necessità di una giusta transizione energetica, rappresenta un passo senza precedenti verso la trasformazione equa di cui necessitiamo.

  

Per non parlare del Global Carbon Budget, che non prevede nulla di positivo. Anzi conferma che nel 2023 le emissioni globali di anidride carbonica (CO2) raggiungeranno un nuovo record a quota 36,8 miliardi di tonnellate. Questo rappresenta un aumento dell’1,1% rispetto all’anno precedente e dell’1,4% in più rispetto al 2019, ultimo prima della pandemia.

 

Conclusioni

Dopo un anno in cui nessuno nel mondo, è sfuggito agli eventi estremi e ai pericolosi effetti dei cambiamenti climatici, questa COP deve essere decisiva. È chiaro a tutti ormai che servono mosse e azioni veloci ma concrete, decise e mirate per rimettere in piedi l’Accordo di Parigi. Dunque, per poterci salvare serve ancora molto, ma ancora è in dubbio il potere di questa Conferenza.
Ora bisogna solo aspettare i risultati finali.

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COP 28. Incomprensioni e caverne e petrolio.

By : Aldo |Dicembre 06, 2023 |Emissioni, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su COP 28. Incomprensioni e caverne e petrolio.

Giovedì 30 novembre si è aperta la COP 28 a Dubai, tra vecchie speranze e dubbi per i risultati della conferenza. L’UE scende in campo decisa a raggiungere i suoi obiettivi comportandosi come un capofila e da modello per le altre nazioni. Ma a distanza di soli 6 giorni dall’inizio, avvenimenti, affermazioni ed interventi hanno già sorpreso tutti, sia in modo positivo che negativo.

L’era delle caverne

Lunedì il mondo scientifico si è bloccato per qualche secondo dopo la dichiarazione del presidente della COP28, Sultan al-Jaber. Quest’ultimo parlando dell’eliminazione dei combustibili fossili, durante un incontro online, afferma:

Non esiste alcuna scienza che indichi sia necessario per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Anzi, la loro eliminazione – anche graduale – non consentirebbe lo sviluppo sostenibile “a meno che non si voglia riportare il mondo nelle caverne”.

Parole, le sue, che fanno rabbrividire tutti, in primis i massimi esperti mondiali, compresi gli scienziati del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Lo scalpore deriva anche dal discorso precedente, che annunciava l’impegno delle 50 principali compagnie petrolifere globali a raggiungere emissioni di metano prossime allo zero. Tra queste l’Aramco dell’Arabia Saudita, la Petrobras del Brasile e la Abu Dhabi National Oil Company di cui proprio al-Jaber è a capo. Le prime perplessità sull’efficacia e la possibilità di un’azione concreta iniziano proprio qui. Inoltre, la “Carta globale della decarbonizzazione” non è in linea con l’obiettivo di restare sotto 1,5° Celsius. E non pone alcun vincolo allo sviluppo di nuovo petrolio e gas e prevede obiettivi di emissione volontari e non prescrittivi.

   

Dopodiché subentrano i giornalisti indipendenti presso il Center for Climate Reporting (in collaborazione con la BBC) che chiedono spiegazioni al presidente. L’inchiesta dimostrava che la presidenza della Cop 28 aveva programmato una serie di incontri per favorire nuovi accordi commerciali internazionali legati ai combustibili fossili. A tali accuse al-Jaber ha assicurato di non aver mai visto questi punti, né di aver partecipato a tali incontri.  Nonostante ciò, parliamo della stessa persona che in apertura della COP ha esortato a “garantire di includere il ruolo dei combustibili fossili nel documento finale”.

Gli scienziati sbigottiti hanno definito l’uscita del presidente come “Parole al limite del negazionismo”. D’accordo anche il segretario generale dell’ONU, António Guterres e Bill Hare, ceo di Climate Analytics, preoccupati per il risultato delle prossime azioni.  

 

A sorpresa, dopo l’assurda affermazione, il sultano ha convocato una conferenza stampa per chiarire quanto detto. Innanzitutto, non si è scusato ma ha detto di essere stato “travisato” dai media, accusandoli di non riportare il suo vero messaggio. Poi ha continuato ricordando quanto la scienza sia parte della sua vita e della fiducia che ripone nelle scelte fatte in questi giorni.  

    

Dalla sua parte

Al contrario di quello che è appena stato descritto c’è chi ha interpretato in altro modo, le parole di Sultan Al Jaber in modo diverso. Il discorso si dirama attorno al seguente concetto: la sostenibilità della transizione. Quindi perché la transizione energetica sia sostenibile per tutti, vuol dire che nessuno può, ne deve essere lasciato indietro.

    

Pertanto, sulla base del fatto che l’eliminazione dei fossili sia la via sa seguire, al-Jaber dice che è necessaria un’eliminazione graduale. Questo perché eliminare una fonte così diffusa (per esempio in Europa) causerebbe una grande crisi, simile a quella vissuta con l’inizio della guerra in Ucraina. In breve, non si possono lasciare tutti a piedi perché non hanno la possibilità comprarsi l’auto elettrica: non sarebbe un cambiamento sostenibile.

    

Anzi, secondo l’articolo di Angelo Bruscino (HuffPost), da un simile passo, ne godrebbe solo la Cina ed il motivo è semplice. Avendo il controllo delle terre rare che servono alle batterie elettriche, incrementerebbe di gran lunga la sua economia. Oppure ne gioverebbe l’America che con l’Inflation Reduction Act ha fatto sì che i costi di transizione li pagasse la collettività e non il singolo che non può permetterselo.

 

Conclusioni

Tuttavia, lo sceicco Yamani (Ministro del petrolio dell’Arabia Saudita dal ’62 allo’ 86) disse:

L’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre. Non bisogna aspettare che finisca il petrolio per far finire l’età del petrolio”

Questo sta a significare che per quanto abbiamo bisogno ancora oggi dei combustibili fossili, la loro permanenza non assume automaticamente un’accezione positiva. Ossia, per affrettare la transizione è necessario un cambio deciso, che possa smuovere anche la burocrazia dietro certi meccanismi. Solo in questo modo potremmo effettivamente eliminare i fossili e ridurre il nostro impatto sul pianeta. 

   

Rispetto al tema affrontato, si possono riportare altre notizie peculiari riguardanti i primi 6 giorni della conferenza. Per esempio:

  • l’assenza inaspettata del presidente degli USA Joe Biden;
  • la presenza quadruplicata (rispetto al 2022) di lobbisti legati ai produttori di combustibili fossili;
  • la premier Meloni che parla di una la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio deve essere equilibrata e realizzabile. Inoltre, riporta l’accento sulla fusione come nuova frontiera energetica.

Di certo non è iniziata nei modi migliori la 28a Conferenza delle Nazioni unite sui Cambiamenti Climatici. C’è ancora tempo per rimediare, ma è necessario rispettare gli obiettivi prefissati e pensare ad azioni concrete e sostenibili.

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L’agroecologia può aiutarci a ridurre le emissioni di CO2.

By : Aldo |Dicembre 04, 2023 |Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su L’agroecologia può aiutarci a ridurre le emissioni di CO2.

È sorprendente vedere come quotidianamente vengano pubblicati studi riguardanti nuove soluzioni per la riduzione delle emissioni dei gas serra. Ancor più importante è scoprire costantemente quanto potere abbiamo nella lotta al cambiamento climatico.

Agroecologia

L’agroecologia non è una nuova scoperta ma un concetto presente già dal Novecento e si riferisce all’utilizzo di principi ecologici nella coltivazione. Dagli anni ’70 si è rafforzato includendo un insieme di tecniche per la coltivazione e di strumenti per la sua salvaguardia. I vantaggi di tale metodologia sono molteplici e vanno dalla conservazione e l’aumento di biodiversità, alla rigenerazione del suolo e la stagionalità delle colture.

La tecnica ha tuttavia un’accezione anche politica e sociale poiché presenta vantaggi e cambiamenti anche sotto questi aspetti. Per esempio, favorisce il cambiamento dei rapporti di potere nella società, valorizzando la dignità del lavoro. Inoltre, privilegia i mercati locali e il territorio rispetto al commercio mondiale.

Si torna a parlare dell’agroecologia poiché l’agricoltura industriale ha arrecato enormi e a volte irreversibili danni alla natura delle coltivazioni. Da anni si discute sul crollo della biodiversità, desertificazione dei suoli, inquinamento delle acque e aumento delle emissioni di gas serra. Pertanto, il concetto in questione promuove un pensiero basato su forme di agricoltura più solide a livello ecologico, biodiverse, resilienti, sostenibili e socialmente giuste.

L’intervista

In questo settore, Paolo Barberi è uno dei massimi esperti italiani. Non a caso coordina il Gruppo di Ricerca in Agroecologia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, e coordina il Dottorato Internazionale in Agrobiodiversità. È co-fondatore e membro del Consiglio Direttivo di AIDA, Associazione Italiana di Agroecologia e detiene di molteplici titoli in ambito scientifico. La sua ricerca si contraddistingue dalle altre perché partecipativa, quindi si basa anche sulla relazione con gli agricoltori per comprendere domande e difficoltà del settore.  La “Repubblica” lo ha intervistato per parlare di come l’agroecologia risulti un ottimo alleato per la riduzione delle emissioni di CO2 attraverso esempi, risultati e vantaggi.

Attualità e monocolture

Il punto che chiarisce subito Barberi è la situazione attuale del settore agricolo. Le tecniche di coltivazione industriale e intensiva hanno riportato negli anni delle importanti criticità che favoriscono meccanismi controproducenti sia per l’uomo che per l’ambiente.  Dunque, sarebbe opportuno puntare sull’agricoltura rigenerativa, evitando le monocolture responsabili dell’impoverimento del suolo e dell’uso smodato di pesticidi, come il glifosato. In particolare, l’uso di fertilizzanti, combustibili fossili, liquami e deiezioni dei ruminanti determina il 20% delle emissioni di gas serra dell’Unione Europea.

È necessario quindi un cambiamento radicale che consenta all’agricoltura, di ridare valore ai suoi prodotti, proteggendo gli ecosistemi, favorendo anche la decarbonizzazione del dell’atmosfera. Tutto ciò è possibile proprio grazie all’agroecologia e in primis all’eliminazione delle monocolture. Quest’ultime hanno monopolizzato la gran parte dei terreni dal periodo del primo colonialismo diventando anche uno strumento politico di dipendenza. Quando poi il colonialismo scemò, gli agricoltori continuarono con le monocolture soprattutto su terreni nudi, privi di altra vegetazione e questo non ha giovato alla natura.

Decarbonizzazione, stoccaggio e biodiversità

Infatti, quello che gli esperti consigliano ora è la coltivazione su suoli ricoperti di vegetazione (naturale o impiantata), per favorire due grandi processi. Il primo è il processo di decarbonizzazione e il secondo di stoccaggio di anidride carbonica. Questo è possibile perché un terreno vegetato durante tutto l’anno, consentirà un maggiore assorbimento di CO2 rispetto ad uno che resta nudo per mesi. In più, può assorbire in modo migliore l’acqua piovana, evitando allagamenti (per quanto possibile), risultando un terreno più funzionale e sano.

A riguardo, Barberi, riporta un esempio chiari dell’efficienza dell’agroecologia per quanto riguarda il secondo processo.  Il professore racconta di come abbia affiancato a Pisa un coltivatore di frumento duro e girasole ed afferma:

Nella fase intermedia tra le due colture abbiamo seminato la veccia vellutata (leguminosa) la cui biomassa favorisce lo stoccaggio di carbonio in un periodo in cui il terreno sarebbe rimasto inutilizzato, con relativo spreco della radiazione solare, fornendo in più azoto a beneficio della coltivazione che le succederà, quella del girasole. E non serve neanche più arare il terreno”.

O ancora

In due vigneti nel Chianti abbiamo misurato l’eventuale competizione per l’acqua tra vegetazione spontanea o impiantata e la vigna verificando che lo stress, che si registra solo in brevi periodi estivi, non incide sulla resa in uva e risulta addirittura vantaggioso per la qualità del vino. Questa evidenza smentisce la credenza comune che d’estate si debba lasciare il terreno nudo per evitare la competizione tra vite ed erbe spontanee.”

Senz’altro da questi esempi si evince come la diversificazione delle colture favorisca la decarbonizzazione quindi porti dei vantaggi in più ambiti. Infatti, analogamente sono importanti gli orti urbani che consentono di riqualificare aree industriali e periferiche delle nostre città, per gli stessi identici motivi.

Conclusioni

Di certo è fondamentale investire sulla consapevolezza del ruolo dei cittadini nell’indirizzare le strategie della grande distribuzione e dei produttori. Questo perché saranno loro a determinare i prezzi al dettaglio, consentendo o meno lo sviluppo sostenibile di cui abbiamo bisogno. In questo argomento è opportuno ricordare l’importanza della stagionalità dei prodotti, che sembra essere svanita nel nulla.

Alimenti fuori stagione che troviamo costantemente negli scaffali dei supermercati, aumentano i costi ambientali e le emissioni. Incrementando la concorrenza di prodotti a prezzi stracciati che tuttavia arrivano dall’altra parte del mondo.  L’agroecologia comprende tutte queste dinamiche con l’obiettivo di regolarizzare e rendere più sostenibili tutte le pratiche legate al mondo dell’agricoltura.

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Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

By : Aldo |Novembre 29, 2023 |Arte sostenibile, Home, menorifiuti, obiettivomeno rifiuti |Commenti disabilitati su Mojito Bio, la prima calzatura biodegradabile al 100%.

Il processo del riciclo è abbastanza importante quanto delicato. Si tratta di un argomento complesso che in certi casi può essere la soluzione al problema e in altri è necessario molto più del trattamento del rifiuto.  Poi però c’è chi, con le tecnologie riesce a trovare la quadra per realizzare i propri sogni sostenibili, in armonia con l’ambiente.

   

S.c.a.r.p.a

S.C.A.R.P.A è un’azienda nata nel 1938 nel cuore delle colline trevigiane ed è leader nella produzione di calzature di montagna e outdoor. Ma soprattutto è rilevante nella sua zona: non a caso il nome della società è l’acronimo di Società Calzaturieri Asolani Riuniti Pedemontana Anonima.

   

La sua caratteristica principale è la produzione di calzature tecniche per le attività montane quali il trekking, lo sci, l’arrampicata, l’alpinismo e l’escursionismo. La seconda, non per importanza è l’attenzione verso la natura e la sua salvaguardia; da qui la motivazione di renderla una “Società Benefit”. Da anni, l’azienda aveva deciso di investire sull’autonomia energetica e la sostenibilità, ma con tale cambio ha scelto di ridurre il suo impatto sul Pianeta. Mettendolo per iscritto, la società ha dichiarato il suo impegno verso l’ambiente e le generazioni future nella maniera più trasparente e diretta possibile.

  

L’aspetto ancora più genuino e sensibile di tale cambiamento è la motivazione alla sua origine. L’amministratore Diego Bolzonello spiega che “Le montagne e la Natura in generale sono il motivo stesso dell’esistenza dell’azienda”, dunque era fondamentale la sostenibilità della produzione.

 

Il Green Lab

Ben 28 anni fa, designer e i ricercatori di S.c.a.r.p.a. hanno deciso di aprire un proprio Green Lab direttamente nella fabbrica, ad Asolo. Oggi, l’azienda ha raggiunto l’autonomia energetica ed ha intrapreso percorsi per ridurre gli scarti per mezzo del processo di riciclo e riutilizzo.

   

Soprattutto, ricorda che ogni anno nel mondo vengono prodotte oltre 24 miliardi di nuove scarpe. La gran parte di queste però arriva in discarica a fine vita, soprattutto quelle da montagna perché difficili da riciclare. Tale peculiarità deriva dal fatto che per la loro produzione vengono usati un mix di materiali difficili da separare.

   

Pertanto, S.c.a.r.p.a. oltre a riciclare le vecchie calzature, ha pensato di creare una rete di risuolatori. In tal modo, ci si può rivolgere per aumentare la vita delle proprie scarpe fino a 4-5 anni. Da questi primi esperimenti sono nati dei prototipi innovativi e totalmente sostenibili, come quelli descritti nel prossimo paragrafo.


Mojito Bio e Maestrale Re-Made

Mojito Bio la prima calzatura certificata biodegradabile al 100% con performance e durabilità che rimangono inalterate. È un prototipo creato in Italia sulla base di una filiera molto attenta e totalmente certificata. Questo vuol dire che tutti i fornitori delle materie prime applicano pratiche industriali sostenibili in termini di:

  • produzione,
  • uso di prodotti chimici,
  • rispetto della salute,
  • della sicurezza e delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti.

Inoltre, è stata certificata la biodegradabilità della scarpa, secondo lo standard ASTM D5511. Quest’ultimo misura il livello di decomposizione in assenza di ossigeno e condizioni di temperatura e umidità controllate, pari a quelle negli impianti di trattamento dei rifiuti.

Mentre Maestrale Re-Made è il primo scarpone da sci interamente realizzato con plastiche ricavate da scarti di produzione. Nello specifico, la società dal 1995 ha stoccato e catalogato ben 3 tonnellate di scarti, per poi trasformarli in una calzatura super tecnologica, solo vent’anni dopo. Il risultato è proprio questo nuovo scarpone che segue una filosofia tutta sostenibile.

    

Così facendo S.c.a.r.p.a ha ridotto del 32% le emissioni di CO2 legata alle plastiche di origine fossile usate per la produzione delle calzature. Per arrivare ad azzerarle invece, l’azienda si è affidata alle energie rinnovabili, che dovrebbero tagliare circa mille tonnellate di CO2. Tutto ciò sarà possibile grazie ad un impianto fotovoltaico da 700 megawatt installato sul tetto ad Asolo.

    

L’azienda che ha altrettanti progetti in ballo conta già 50 Re-shop tra Lombardia, Veneto e in Trentino-Alto Adige. Questi negozi accettano di raccogliere scarpe usate del modello Mojito, con l’obiettivo di arrivare a 15mila paia di scarpe. Dopo la loro raccolta verranno ne realizzate altrettante con gli stessi standard di qualità e sicurezza. Ma S.c.a.r.p.a. non si ferma solo in Italia perché ha addirittura negozi in Francia, Austria e Germania, fino a contare 250 negozi in tutta Europa.

    

È forse questo i Made in Italy che dovremmo finanziare, ovvero la filiera italiana sostenibile? Potrebbe essere questa, una possibilità di affermarci nuovamente in Europa e nel mondo?

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Roma inaugura la prima CER che ha come centro una scuola.

By : Aldo |Novembre 27, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Home |Commenti disabilitati su Roma inaugura la prima CER che ha come centro una scuola.

Quando si parla di sensibilizzazione spesso si pensa alle scuole, o ad incontri e lezioni in aula rivolte ad un pubblico di vario tipo. La scuola è sicuramente un ente in cui si formano i ragazzi che possono essere parte attiva del cambiamento per il loro stesso futuro. Come nel caso della scuola di Roma, diventata il fulcro di una CER.

    

Le CER

Le comunità Energetiche Rinnovabili, sono una forma innovativa di produzione e condivisione di energia, per ridurre i costi e le emissioni di CO2. Tale sistema permette di coinvolgere tante realtà come i cittadini, attività commerciali, amministrazioni locali e piccole-medie imprese. Tuttavia, è importante la collaborazione tra due o più soggetti per la produzione di energia destinata all’autoconsumo, scambio e in caso di surplus, cessione alla rete.

    

La produzione condivisa, consentita tramite impianti che possono appartenere anche a terzi, comporta benefici sia economici che ambientali. Infatti, questi sistemi favoriscono nuove opportunità occupazionali per le piccole e medie imprese coinvolte nello sviluppo, gestione e manutenzione degli impianti. Proprio nella giornata di ieri, la Commissione Europea ha promosso il decreto del MASE per incentivare le comunità energetiche (Cer), sbloccando aiuti per 5,7 miliardi.

     

La CER a Roma

A Roma la prima CER è arrivata a dicembre del 2022, nel quartiere della Vittoria in viale Sant’Angelico ed è nominata “Le Vele”. L’obiettivo di tale sistema è quello di abbattere l’emissione di 41 tonnellate di CO2, equivalenti a 1.365 alberi piantati. Nello specifico la CER gode di un impianto di 90 Kw che produrrà̀ circa 120 mila kWh di energia pulita l’anno. Tutto questo grazie alla collaborazione di 3 soggetti ossia, il I municipio, Federconsumatori e l’Istituto Leonarda Vaccari.

     

Un altro record è quello che riguarda la prima CER nata intorno ad una scuola. L’Istituto Moscati di via Padre Semeria è il fulcro di questa comunità, grazie alla collaborazione tra VIII Municipio, RomaTre, Comune e associazioni di cittadini. La scuola ora rappresenta non solo un luogo di formazione ma anche un simbolo di sostenibilità e cooperazione tra cittadini, università ed altri enti.

    

La scuola nella CER

La CER dell’VIII Municipio ed approda nell’Istituto comprensivo Moscati di via Padre Semeria, sul tetto della quale sono stati installati dei pannelli fotovoltaici. L’istituzione dell’impianto garantisce un grande risultato che non riguarda solo il risparmio economico e una transizione energetica, ma un processo di partecipazione democratica.

    

Questo è solo uno il primo di una serie di progetti in fase di avvio a Roma. Il piano stato presentato nell’aula magna del Rettorato dell’università Roma Tre, con un workshop dal titolo “Comunità energetiche rinnovabili il ruolo delle amministrazioni locali”. Non a caso l’iniziativa è stata presentata come un laboratorio di interesse universitario e comunale, che può valorizzare maggiormente il patrimonio dei tetti pubblici. Inoltre l’energia prodotta può aiutare il quartiere ed è così che il programma diventa simbolo di cambiamento ambientale e sociale.

    

È importante ricordare che con tale progetto, la scuola sarà in grado di risparmiare sui costi dell’energia e di abbassare le emissioni grazie alle rinnovabili. In più, i profitti derivati dal piano, saranno investiti in attività di inclusione e di sostegno per famiglie in povertà energetica. Dunque, come detto in precedenza, l’iniziativa ha finalità educative, ambientali, economiche e sociali.

    

Iniziativa e cooperazione

La particolarità di questa idea è proprio la sua origine. Infatti il tema scuola è al centro del progetto proprio per volere dell’Associazione “ScuolaLiberaTutti” composta dai genitori degli studenti. Proprio l’associazione ha proposto all’VIII Municipio e alla scuola di costituire una Cer finanziata dall’organizzazione stessa. Il municipio che ha accolto l’idea è poi riuscito a trovare fondi pubblici per realizzare l’impianto fotovoltaico da 15 KW: ora manca solo la connessione.

   

In tutto questo vi è anche lo zampino dell’Università Roma Tre. L’ateneo ha osservando i movimenti, ha pensato di partecipare mettendo a disposizione i suoi edifici per realizzare altri impianti che serviranno per autoconsumo e produzione. Oltre ai benefici elencati precedentemente, l’università ha colto l’occasione per pensare ad ipotetici e futuri progetti didattici e master specifici. 

 

All’incontro ha partecipato anche Andrea Catarci, assessore alle Politiche del personale, al decentramento, partecipazione e servizi al territorio per la Città dei 15 minuti. L’assessore ha sicuramente portato un barlume di speranza nel tunnel della lenta burocrazia delle CER italiane e principalmente quelle romane. Catarci ha infatti dichiarato che Roma, in 3 anni, avvierà almeno una Cer in ogni municipio e coinvolgerà altre 300 scuole.

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Dal Canada arriva la “Pigna” che previene e mitiga gli incendi boschivi.

By : Aldo |Novembre 26, 2023 |Arte sostenibile, Home |Commenti disabilitati su Dal Canada arriva la “Pigna” che previene e mitiga gli incendi boschivi.

In Italia sono in crescita le iniziative volte alla promozione e al finanziamento delle startup. Soprattutto se puntano al settore delle nuove tecnologie impiegate nel contrasto al cambiamento climatico. Tra queste ne esistono di tutti i tipi con gli obiettivi più disparati ma fondamentali per la salvaguardia del Pianeta.

 

Pericolo fiamme

Gli incendi boschivi sono aumentati nel corso degli anni in tutto il mondo e  in Italia si sviluppano principalmente per motivi quali:

  • la piromania
  • le temperature elevate dovute al cambiamento climatico
  • gli incendi dolosi

Tuttavia, una causa che non viene quasi mai citata è la rete elettrica, che installata lungo il territorio, determina la nascita del 10% degli incendi. Questi ultimi poi, finiscono per devastare almeno il 20% dell’area in cui sono nati danneggiando l’ambiente in maniera irreversibile. Il motivo di questa scintilla deriva da cortocircuiti, sovraccarichi e anomalie degli impianti, responsabili dell’1% di tutte le emissioni di carbonio. Tutto questo ovviamente ha un peso, sia sul capitale naturale, che sull’economia pari a 21 miliardi di dollari di danni diretti.

  

Secondo le analisi di Legambiente, svolte tra gennaio e luglio, ben 51.386 ettari di zone boschive andate in fumo nelle regioni del Mezzogiorno. Infatti, la regione più colpita nei primi 7 mesi del 2023 è la Sicilia, con oltre 41.000 ettari in cenere, seguita da Calabria e Puglia. Nonostante ciò, la speranza è l’ultima a morire e per questo parliamo di SLY, una startup italo-canadese che tramite sensori satellitari mitiga gli incendi.

   

SLY dal Canada alla Calabria

Kseniya Lenarciak una bancaria canadese e il suo compagno Max, partono dal Canada e arrivano in Calabria per visitare la famiglia, poco prima del covid. Il caso vuole che con l’inizio della pandemia, si ritrovano costretti a restare nel Sud d’Italia insieme ai loro figli. In poco tempo si sono innamorati della vita e dei paesaggi offerti dalla regione, tanto da acquistare dei terreni per lavorarli nel tempo libero.

  

Però vivendo a pieno la regione calabrese, ne hanno conosciuto anche i lati negativi. Tra questi i frequenti incendi, per i quali decidono di sviluppare un progetto concretizzato in una startup. Quindi Kseniya, Max e un loro amico Davide hanno unito le loro conoscenze per creare “SLY”. L’impresa si basa su una serie di sensori di intelligenza artificiale per rilevare rapidamente gli incendi selvaggi basandosi sull’analisi dei cambiamenti nella composizione dell’aria.

   

Come funziona la “Pigna”

Il sistema ideato dai 3 amici, si sviluppa sull’utilizzo di specifici sensori edge-AI denominati “Pigna”(proprio per la loro forma). Ogni sensore ha una capacità di monitoraggio di 10 ettari e sono tutti collegati ad un portale centrale “Pigna-max”. Tale rete permette un monitoraggio costante e capillare del territorio, consentendo la rilevazione di incendi in tempi estremamente brevi.

Questo sistema è fruibile anche dalle centrali operative dei vigili del fuoco connesse alla piattaforma “Tree?ge”, cosicché possano intervenire tempestivamente sulle singole criticità. Tutto ciò è possibile grazie all’accuratezza superiore all’85%, che precisa quali incendi sono rischio di propagazione, informando istantaneamente la forza pubblica incaricata della loro gestione.

 

Quando si tratta di combattere gli incendi, il tempismo è tutto”

 

SLY oggi

L’impresa è stata fondata a febbraio 2023, con Kseniya come CEO di un team tecnico composto di 7 persone, specializzate nel campo delle tecnologie climatiche. I suoi obiettivi sono:

  • contribuire in maniera decisiva alla mitigazione dell’1% degli incendi selvaggi durante la fase “primordiale”;
  • sviluppare soluzioni in grado di identificare i potenziali incendi;
  • preservare le aree, le risorse naturali e il patrimonio boschivo dei territori;
  • favorire un ambiente più sicuro;
  • rendere monitorabili anche le aree territoriali più remote (che spesso sono inaccessibili per barriere naturali).

Dopo poco tempo dalla sua nascita, SLY è stata scelta da B4i – Bocconi for innovation per far parte del programma “Encubator” di startup. Tale riconoscimento gli ha garantito un finanziamento di 32.700 euro e l’ammissione alla seconda fase del programma “Startup acceleration”. Quest’ultimo dedicato ai settori Climate, Green Energy e Food Tech di INNOVIT. Dunque, il team è arrivato San Francisco come sesta startup su 15 selezionate.

    

Le startup sono esattamente la concretizzazione delle idee più disparate per poter salvare il pianeta. Certo non è semplice inventare qualcosa che non sia già stato presentato, ma non è neanche impossibile. In questo caso però, la peculiarità riguarda la dedizione e la passione con cui una coppia canadese ha deciso di lavorare per proteggere l’Italia. E se invece unissimo le forze e collaborassimo? L’Italia è piena di giovani team intraprendenti, basta riconoscerli, valorizzarli, ascoltarli e perché no, farli cooperare con l’estero.

Niente è impossibile.

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La funivia delle mele: l’innovazione per limitare traffico e inquinamento.

By : Aldo |Novembre 22, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Home |Commenti disabilitati su La funivia delle mele: l’innovazione per limitare traffico e inquinamento.

Le nuove tecnologie fanno avanzare il mondo sotto tanti punti di vista. Di certo hanno facilitato molte attività ma non per questo determinano, a priori, un danno alla cultura e alle tradizioni di una popolazione.

    

Il consorzio Melinda

L’azienda Melinda è un consorzio che produce ogni anno circa 400.000 tonnellate di mele nelle valli di Non e Sole. È composta da oltre 4.000 famiglie di soci produttori, raggruppati in 16 cooperative, che vivono e coltivano il melo nelle Valli citate.

   

Queste coltivazioni sono rappresentano non solo il grande fulcro del Trentino. Infatti, alla fine dell’Ottocento, piantare alberi di melo si è rivelata la salvezza per la comunità della Valle di Non. In quegli anni si diffusero velocemente malattie che colpiscono gelsi e vite; dunque, molte famiglie sono costrette a emigrare: tante ma non tutte. Coloro che provarono a resistere si giocarono la carta della coltivazione di mele, una scommessa che risultò vincente.

   

Da lì, l’abbondanza dei raccolti supera presto il fabbisogno della comunità, quindi si passa all’esportazione, un’altra attività trionfante. Alla fine degli anni 30 del Novecento, il 40% della frutta trentina viene dalla Valle di Non e da qui parte il 70% dell’esportazione. Successivamente negli anni 60-70 è boom: il successo delle mele della Val di Non porta lavoro per tutti, benessere, ripopolamento dei paesi. Il consorzio è una punta di diamante del Bel Paese, ma oggi è anche una grande realtà sostenibile soprattutto dopo l’ultima trovata.

   

Il progetto PNRR

Il progetto di Melinda ha vinto il bando previsto dal Pnrr dedicato alle migliori idee per lo sviluppo della logistica agroalimentare. Con questa vittoria si classifica al secondo posto su un totale di cento proposte che hanno avuto accesso ai fondi. Il piano era già stato presentato al Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare e delle Foreste e al Parlamento europeo come buona pratica di sostenibilità ambientale.

   

L’idea è quella della prima funivia in Italia, che possa trasportare le mele dell’azienda, riducendo emissioni di CO2, traffico e carburante. Il costo complessivo del programma è di 10 milioni di euro, di cui 4 arriveranno come contributo a fondo perduto dal PNRR

   

Si tratta di un impianto monofune ad agganciamento automatico a tre piloni con 11 piloni di sostegno con un dislivello di 87m. Tale sistema potrà trasportare ogni ora 460 contenitori impilabili o “bins”, alla modica velocità di 5 m/s lungo un viaggio a dir poco peculiare. Infatti, l’itinerario partirà dalla sala di lavorazione di Predaia e arriverà fino alla Miniera di Rio Maggiore; lì entrerà nelle cave estrattive di dolomia. Dopodiché prosegue per altri 430 metri all’interno di una galleria per raggiungere le celle ipogee: qui le mele entrano in un “frigorifero naturale”.

    

Impatto ambientale

Questo progetto ha degli importanti e validi sviluppi sostenibili, che apportano una rilevante innovazione nel Paese: ripartiamo proprio dalle celle. L’ambiente in esame ha una temperatura controllata nel cuore delle Dolomiti che permette di risparmiare il 30% di corrente elettrica rispetto a un magazzino tradizionale. Inoltre, elimina la necessità di dover costruire nuovi edifici in superficie.

    

Di certo, entro il 2024 in Val di Non, 40mila tonnellate di frutta non viaggeranno più lungo l’autostrada. In particolare, oggi sono necessari 10 camion che effettuano complessivamente 80 viaggi al giorno, trasportando ciascuno 36 bins. Nello specifico non si effettueranno più 6000 viaggi con i tir, togliendo dalla strada un traffico pari a 12000 km/anno, riducendo l’inquinamento in un ambiente molto delicato.

    

Nonostante ciò, Melinda è sostenibile da tempo, grazie a tanti accorgimenti che vanno a dalla riduzione delle emissioni, dell’energia e dell’acqua. Ma arriva anche alle coltivazioni biologiche, non intensive e alla salvaguardia della fauna che abita le valli del Trentino. Senza dubbio, questo nuovo programma potrà solo dare ancora più valore alla riqualificazione del centro visitatori al frutteto quale potrà partire un percorso dedicato.

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Granchio blu: dalle cucine ai laboratori di ricerca per l’estrazione di chitina.

By : Aldo |Novembre 21, 2023 |Arte sostenibile, Consumi, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Granchio blu: dalle cucine ai laboratori di ricerca per l’estrazione di chitina.

Quando si verifica un’invasione di un territorio di una specie aliena (animale o vegetale che sia), ci si trova sempre in una situazione delicata. È importante valutare l’impatto di ogni passaggio, metodo di monitoraggio e riqualifica degli ambienti colonizzati ecc. Ma ci sono dei casi in cui tutto questo sembra molto più semplice di quanto sembri.

     

L’invasione del granchio blu

Sono ormai anni che si parla dell’invasione del granchio blu e della sua pericolosità per biodiversità del Mediterraneo. Avendo già esaminato questa situazione nel tempo, ci si può accorgere di come la narrazione di tale problema sia cambiata radicalmente nell’arco di un anno.

   

Se prima il granchio blu faceva preoccupava tutti, non si trovavano modi per limitare la sua riproduzione o i suoi movimenti, ora è oggetto di discussioni culinarie. Infatti, come abbiamo riportato qualche mese fa, il granchio blu è arrivato nelle pescherie italiane, proprio per ridurne la quantità in mare. Poco dopo il suo exploit, chef e cuochi amatori hanno proposto svariate ricette a base del crostaceo, rivoluzionando l’idea della specie aliena invasiva e pericolosa.

   

Tale passaggio è stato accolto così positivamente e rapidamente, che il granchio blu sembra far parte della nostra dieta da sempre. Ma nonostante si tratti di un buon metodo per limitare la colonizzazione delle nostre acque, c’è chi è andato oltre. Nello specifico l’Università Ca’ Foscari ha intrapreso un corso di ricerca per riscontrare nuovi e possibili utilizzi della specie aliena, che possano incrementare l’economia sostenibile.

    

Il team e la ricerca

L’Università Ca’ Foscari di Venezia sta sviluppando un metodo per estrarre la chitina dal carapace dei granchi blu per farne nanomateriali per futuri impieghi. Il team costituito da:

  • La professoressa di Chimica generale e inorganica, Claudia Crestini,
  • il professore di Fondamenti chimici delle tecnologie, Matteo Gigli,
  • dottorando Daniele Massari del Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi,
  • la professoressa Livia Visai e la dottoressa Nora Bloise dell’Università di Pavia,

è riuscito a brevettare una tecnica per trasformare la chitina in nanomateriali intelligenti, grazie alle nuove tecnologie e alla versatilità del materiale stesso.  Tra i vari ambiti di ricerca, la squadra conta la biomedicina, i packaging sostenibili e la protezione per i materiali scrittori.

   

L’obiettivo di questi studi è quello di isolare la chitina dai gusci in una modalità efficiente e funzionale all’industria. Per ora il team è in grado di isolare e modificare chimicamente una frazione nanocristallina della chitina, creando delle nanostrutture. Quest’ultime sono state impiegate per lo sviluppo di materiali straordinariamente innovativi, attraverso processi scalabili a livello industriale.

   

Industria alimentare

La chitina determina un mercato globale di 1,8 miliardi di dollari, derivato principalmente all’industria alimentare, agrochimica e sanitaria. Non a caso il gruppo di ricerca si è specializzato in questi ambiti, primo fra tutti l’alimentare, con nuovi film e packaging sostenibili.

    

Infatti, i ricercatori stanno sviluppando film nanostrutturati che possono sostituire le plastiche tradizionali per realizzare pellicole flessibili completamente biobased. Con la seguente aggiunta di composti naturali si potrebbero ottenere anche capacità antiossidanti ed antimicrobiche. Le proprietà funzionali di tali prodotti consentono di prolungare la durata della conservazione dei cibi proteggendoli da processi che ne accelerano il deterioramento. È importante anche ricordare che si tratta di film e pellicole biodegradabili, quindi, si potrebbero creare packaging che aderiscono pienamente ai principi di circolarità.

    

In ambito sanitario

Oltre al settore alimentare, la squadra si è interessata anche a quello sanitario. Un esempio è legato ai film flessibili, che abbinati a sostanze di origine naturale possono trasformarsi in validi patch medicali, cerotti speciali. Tale operazione è possibile grazie alla loro biocompatibilità ed emocompatibilità. Inoltre, possono avere una composizione chimica diversa per ottenere film adesivi o antiadesivi con proprietà simili all’eparina. Così facendo si possono offrire soluzioni nuove e personalizzate per le esigenze mediche.

     

La chitina per la scrittura

Passando da un ambito all’altro, si può notare l’importanza e la grande versatilità della chitina, poiché può aiutare anche nella conservazione di materiale scrittorio antico.  Gli studiosi hanno sviluppato un progetto rivolto ai rivestimenti (coating) per il restauro e la conservazione di tale materiale. In più, la proteina ha la capacità di rallentare e prevenire diversi fenomeni di degradazione della carta inchiostrata: come?  Essenzialmente la chitina riesce a contrastare l’aumento di acidità della carta e contrastare la proliferazione di microrganismi. Inoltre, è capace di impedire il deterioramento delle proprietà meccaniche della carta, rinforzando le sue fibre.

     

Si può affermare che l’università abbia iniziato un processo di upcycling, col quale trasforma biomasse di scarto in prodotti sostenibili e ad alto valore aggiunto. Tutto questo rientra in un ciclo di economia circolare poiché, la chitina viene estratta dagli scarti dell’industria ittica (specialmente di granchi e gamberetti). Quindi l’emergenza per l’industria ittica del nordest, riguardante il granchio blu, rappresenta un’ottima occasione per sperimentare nuove tecniche e prodotti.

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E se la CO2 diventasse una risorsa? Ecco i casi più virtuosi nel mondo.

By : Aldo |Novembre 20, 2023 |Arte sostenibile, Efficienza energetica, Emissioni, Home |Commenti disabilitati su E se la CO2 diventasse una risorsa? Ecco i casi più virtuosi nel mondo.

Il concetto di economia circolare non si affianca solo a determinati processi di produzione, ma riguarda un complesso sistema ideologico globale. Sarebbe necessaria la sua attuazione in più settori possibili, ma soprattutto sarebbe opportuna una sensibilizzazione della popolazione mondiale per definire il cambiamento.

   

La CO2

Generalmente si parla della CO2 con accezione negativa. Quello che ci raccontiamo sommariamente è che si tratta di un gas che sta aumentando nel mondo, causando non pochi danni alla popolazione. L’attuale lotta al cambiamento climatico è in primis volta alla riduzione di questo gas climalterante secondo vari metodi, processi dei singoli o delle aziende.

Ma quello che forse non si pensa tutti i giorni è che la CO2 potrebbe diminuire anche con attività produttive che la coinvolgono in maniera massiccia. Così l’anidride carbonica diventa una risorsa; come in altri casi è un elemento da eliminare che tuttavia può essere riusato senza creare altri danni all’ambiente.

Il movimento in atto propone quindi un’ampia gamma di soluzioni per contrastare il grande problema. Come capofila troviamo decine e decine di startup, provenienti da tutto il pianeta, che stanno rafforzando il settore della clean technology. Un ambito in forte crescita negli ultimi anni, che prevede grandi investimenti per la ricerca, che potrebbe portare ad una riduzione delle emissioni mondiali del 10%.

    

Esempi di startup e innovazioni

Al momento le tecnologie sono le più disparate come le startup che lo studiano. Ma concretamente, come si può impiegare la CO2 considerandola una materia prima, una nuova risorsa? Di seguito riportiamo una serie di esempi virtuosi, di nuovi fronti della tecnologia e dell’arte del riuso.

   

  • La CO2 in serra. Climeworks è un’azienda svizzera leader nei processi di rimozione della CO2, grazie alle tecnologie usate come quella che descriviamo in questo esempio. La società ha un impianto in grado di catturare l’anidride carbonica e trasformarla in fertilizzante per le serre ortofrutticole. Questo è possibile grazie allo sfruttamento dell’energia termoelettrica e rinnovabile di un vicino inceneritore, che ne cattura la CO2 grazie a particolari filtri.
       
  • CO2nvert e l’etanolo. CO2nvert, una startup con sede ad Udine, si è impegnata nella trasformazione dell’anidride carbonica in etanolo, per diversi impieghi. Per esempio è stato usato come carburante per aerei o come elemento per la cosmetica, soprattutto per la creazione di profumazioni.  L’impresa conferma di usare solo fonti rinnovabili e in particolare riesce a rimuovere 8 kg di anidride carbonica per ogni kg di etanolo. Un valore pari a quello catturato da 65 alberi.
       
  • Air Protein e la carenza di cibo. Air Protein invece, si è basata sul problema delle emissioni derivato dal cibo e la sua mancanza in alcune aree del mondo. L’azienda è riuscita, con una tecnologia mutuata da un programma della NASA, ad aggiungere CO2 a minerali, acqua, ossigeno e azoto. Così facendo, Lisa Dyson e John Reed (i ricercatori del MIT) ha sintetizzato una farina ricca di proteine, quindi anche un’alternativa sostenibile alla carne.
        
  • Carbon Craft Design. In questo caso invece, si parla di edilizia, settore responsabile del 39% delle emissioni. La startup Carbon Craft Design dell’architetto indiano Tejal Sidanl, vuole partecipare alla riduzione dei livelli di inquinamento, soprattutto del suo Paese. Per questo ha inventato le “carbon tiles”, mattonelle formate con il carbonio nero estratto dall’inquinamento. Sono composte di scaglie e polvere di marmo impastate con la CO2 catturata con un filtro per il particolato.
       
  • Aria nell’alcol. Air Company, un’azienda che produce profumi, si trova ora in un nuovo business: quello dell’alcol o precisamente della vodka. L’impresa formata da Stafford Sheehan (ricercatore di chimica dell’Università di Yale) e Gregory Constantine responsabile marketing della vodka Smirnoff, ha una buona idea. I fondatori infatti sono riusciti a trasformare la CO2 in etanolo con l’aiuto di un catalizzatore metallico, messo in funzione con l’energia solare. Con una bottiglia della vodka Air Company da 750 ml si catturano di 340 grammi di anidride carbonica.
        
  • Le batterie italiane. Un’altra realtà italiana di spicco è Energy Dome: la prima azienda al mondo ad aver inventato una batteria di accumulo a base di anidride carbonica. Il progetto CO2 Battery è in grado di ridurre i costi (e l’impatto) delle materie prime utilizzate. Nello specifico si basa su una tecnologia che sfrutta le proprietà della CO2 con un processo termodinamico innovativo.
        
  • I gioielli della CO2. Tutti quanti già lo sanno: un diamante è per sempre, ma vale ancora di più se può ridurre le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera. Dunque, l’azienda in esame è l’americana Aether Diamonds, che intrappola l’aria inquinata e ne estrae la CO2 trasformandola in diamanti. Si tratta di un processo rivoluzionario e sostenibile che consente la crescita del diamante, un atomo alla volta, scongiurando l’utilizzo di combustibili fossili estratti.

       
    E poi ci sono ancora imprese che con l’anidride carbonica hanno creato dei biopolimeri per borse e sedie, chi invece ha pensato di unirla al calcestruzzo. La ricerca continua senza sosta lo studio delle più complesse tecnologie, pur di risolvere la quesitone climatica. Sicuramente questi sono degli esempi che dimostrano la quantità di possibilità concrete che abbiamo per migliorare il mondo.

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Ecocidio: in Europa arrivano nuove norme e sanzioni.

By : Aldo |Novembre 17, 2023 |Arte sostenibile, Home, i nostri figli andranno ad energia solare |Commenti disabilitati su Ecocidio: in Europa arrivano nuove norme e sanzioni.

La legislazione serve in ogni settore per regolamentare qualsiasi tipo di attività ed evitare crimini. Per questo le leggi vanno rispettate ma è anche necessario istituirle con criterio a seconda della circostanza presa in esame. Per questo analizziamo la proposta dell’Europa sull’ecocidio.

    

Ecocidio

Il termine ecocidio venne coniato per la prima volta nel 1970 dal biologo statunitense Arthur Galston per descrivere i danni causati dal cosiddetto “agente arancio”. Si trattava di un defoliante che l’esercito Usa sparse in enormi quantità sulle foreste tropicali durante la guerra del Vietnam. Successivamente, nel 1973 Richard Falk, docente di Diritto internazionale definì l’ecocidio come “Opera di consapevole distruzione dell’ambiente naturale”, descrizione invariata fino allo scorso giugno.

   

Proprio pochi mesi fa, infatti, un gruppo di esperti (avvocati e legali) ha trovato le parole giuste per indicare i reati ambientali a livello legale. Quindi, riuniti nella colazione Stop Ecocide International, hanno proposto l’inserimento dell’ecocidio nei crimini di guerra, contro l’umanità e i genocidi. Di seguito hanno definito che il termine ecocidio indica

 

atti illegali o sconsiderati compiuti con la consapevolezza di una significativa probabilità che tali atti causino danni all’ambiente gravi e diffusi o di lungo termine”.

Per concretizzare tale descrizione, si possono fare vari esempi:

  • le fuoriuscite di petrolio in alto mare, come quella della Deepwater Horizon del 2010;
  • gli sversamenti di petrolio nella regione del Delta del Niger;
  • la deforestazione in Indonesia e Malesia per la coltivazione di palma da olio;
  • lo sversamento di prodotti chimici nell’acqua, nel suolo o nell’aria a Bhopal, in India, nel 1984;
  • i progetti di fracking e quelli per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose del Canada, che hanno devastato la fauna selvatica e le terre indigene.

Il momento storico europeo

In questo ambito è intervenuta anche l’UE che ha deciso di inasprire le sanzioni collegate a tale crimine. Questa mossa è stata guidata dalla deputata francese Marie Toussaint, che ha dimostrato come la crescita dell’attenzione sull’ecocidio sia cresciuta negli ultimi anni. Specialmente a seguito del disastro dell’Erika, un petroliere affondato al largo delle coste della Bretagna nel 1999.

      

In questo momento storico l’Europa sta affrontando molteplici sfide ambientali senza precedenti. Pertanto l’aggiunta dell’ecocidio all’elenco delle offese punibili dall’UE rappresenta un passo significativo verso una giustizia ambientale più efficace. Si discute spesso di tale questione anche perché correlata agli ultimi avvenimenti nel mondo e soprattutto in Europa. Per esempio, la guerra in Ucraina che ha determinato distruzione e contaminazione di vaste aree quindi di tutte le matrici ambientali. Questo ha causato danni per ben 53 miliardi di dollari a terra, acqua e aria.

 

La nuova normativa

Così, per mettere dei limiti a questi scempi ambientali (e di conseguenza umani), si è arrivati ad un accordo tra i due co-legislatori UE. L’intesa stabilisce l’aumento di atti qualificati come crimini ambientali da 9 a 18. Tra questi troviamo l’importazione e l’uso illegale di mercurio, così come di gas fluorurati. Per questi materiali si prevede l’abbandono graduale entro il 2050, poiché hanno un potere climalterante fino a 24mila volte quello della CO2. Si passerà quindi allo stop immediato al commercio di HFC per alcuni elettrodomestici comuni e non solo. Tra i nuovi crimini ambientali troveremo anche l’importazione di specie aliene invasive, lo sfruttamento illegale di risorse idriche e l’inquinamento causato dalle navi.

   

Di seguito sono state inasprite le pene per chi commette tali reati:

  • oltre agli 8 anni per le ‘qualified offences’, ora ecocidio;
  • fino a 10 anni di reclusione per privati e responsabili di aziende che commettono crimini che portano a decessi;
  • un massimo di 5 anni di carcere per i reati ambientali minori a seconda della gravità e della reversibilità o meno del danno arrecato.

Sarà data più attenzione a chi denuncia crimini ambientali ed è prevista protezione rafforzata per i whistleblowers. Ci saranno poi e aggiornamenti regolari per giudici, magistrati e funzionari delle forze di sicurezza con compiti legati alla tutela dell’ambiente. E scatterà l’obbligo per i Ventisette di organizzare campagne di sensibilizzazione mirate a ridurre i crimini ambientali.

   

Critiche al sistema

Nonostante il grande passo in avanti, c’è chi non crede al cambiamento annunciato. I dubbi riguardano la definizione del termine ecocidio: chi determina cosa significa, cosa include o chi e cosa riguarda? Se l’UE lasciasse carta bianca ad ogni stato, ognuno potrebbe definirlo in maniera diversa con possibile fallimento dell’opera. C’è chi pensa che potrebbe diventare oggetto di greenwashing, come un’arma economica o una propaganda politica.

     

Certo è, che si tratta di un movimento che sta prendendo piede velocemente con leggi già in vigore in paesi come Ucraina, Vietnam, Ecuador e Francia. Poi ancora in Brasile e Belgio stanno avanzando nella legislazione mentre Scozia, Spagna e Paesi Bassi hanno recentemente proposto di rendere l’ecocidio un reato.

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