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Quanta CO2 consumiamo stando al telefono? Ecco il calcolatore di emissioni dei social.

By : Aldo |Febbraio 24, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Quanta CO2 consumiamo stando al telefono? Ecco il calcolatore di emissioni dei social.

Ora più che mai si parla delle generazioni digitali, e ancor di più di quelle social, ovvero di tutti coloro che sono nati e cresciuti con i mezzi più tecnologici tra le mani. Applicazioni di ogni tipo, fotocamere e social sono una parte importante della vita dei più giovani. Ovviamente i pareri sono contrastanti, tra i loro effetti negativi e i loro benefici, l’unica cosa che invece è sicura, è la quantità di emissioni che produce l’utilizzo di tutti i social.

dole777 - Unsplash

I social media

I social media sono piattaforme web-based che permettono agli utenti di creare, condividere e scambiare contenuti, seguendo i principi del Web 2.0 e favorendo una comunicazione interattiva e multidirezionale. A differenza dei mezzi di comunicazione tradizionali, offrono un modello in cui tutti gli utenti hanno pari possibilità di interazione. Tra i social più popolari si trovano Facebook, Instagram, WhatsApp, TikTok, Twitter, Telegram e LinkedIn, utilizzati per socializzare, fare networking professionale, intrattenersi e condividere informazioni. Nel 2024, gli utenti attivi sui social media hanno superato i 5 miliardi, coprendo oltre il 62% della popolazione mondiale, con una crescita annua del 5,6%. La fascia di età più attiva è quella tra i 25 e i 34 anni, ma anche i giovani e la cosiddetta “silver generation” sono sempre più presenti su queste piattaforme.

Il consumo di energia

Il consumo di energia legato ai social media è principalmente indiretto e dipende dall’uso di dispositivi elettronici, come smartphone e computer, necessari per accedere a queste piattaforme. Sebbene non esistano dati specifici sul consumo energetico diretto dei social media, è evidente che la crescente diffusione dei dispositivi mobili contribuisce all’aumento del consumo globale di energia elettrica. Attualmente, il 69,4% della popolazione mondiale utilizza un dispositivo mobile, un dato in continua crescita. In generale, i social media rappresentano strumenti essenziali per la comunicazione moderna, con un impatto rilevante sulla società e sull’economia globale, ma il loro impatto ambientale è maggiormente legato all’uso dei dispositivi che li supportano piuttosto che al consumo diretto delle piattaforme stesse.

Il calcolatore di emissioni

Lo studio di Carbon Footsprint Calculator rivela che un influencer con tre milioni di follower può generare fino a 1.072 tonnellate di CO₂ all’anno, equivalenti a 481 viaggi andata e ritorno tra Parigi e New York. L’economia digitale nel suo complesso rappresenta tra il 2 e il 4% delle emissioni totali di CO₂, con i social media che contribuiscono significativamente. TikTok è il social con il maggior consumo energetico, emettendo 0,98 grammi di CO₂ al minuto per utente, seguito da Reddit (0,92 g), Instagram e YouTube (0,87 g).

Per monitorare e ridurre l’impronta di carbonio del settore, è stato introdotto il Carbon Footprint Calculator, uno strumento sviluppato da Kolsquare e Sami che aiuta brand e creator a misurare l’impatto delle loro campagne. Le emissioni dipendono da vari fattori, tra cui la creazione di contenuti, l’invio di prodotti promozionali, l’uso di dispositivi elettronici, la durata e qualità dei video e i mezzi di trasporto utilizzati.

L’obiettivo è promuovere una crescita più sostenibile nell’influencer marketing, con creator e aziende chiamati a essere più trasparenti e responsabili nel loro impatto ambientale. Misurare le emissioni consente di identificare aree di miglioramento e strategie per ridurle, sottolineando il ruolo chiave degli influencer nella sensibilizzazione sulla sostenibilità.

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Le siepi possono aiutarci con lo stoccaggio della CO2 del suolo, fino a un aumento del 40%.

By : Aldo |Febbraio 20, 2025 |Emissioni, Home, menomissioni |Commenti disabilitati su Le siepi possono aiutarci con lo stoccaggio della CO2 del suolo, fino a un aumento del 40%.

Alberi, prati, boschi, insomma il verde urbano oltre ad essere visivamente apprezzabile, ha tanti benefici che spaziano dalla salute ambientale a quella mentale. Non a caso si parla della Regola 3-30-300, che prevede3 alberi in vista da ogni casa, 30% di tree canopy cover in ogni quartiere, 300 metri di distanza dallo spazio verde più vicino. Per tanto sono fondamentali anche quelle siepi che spesso sembrano un mero abbellimento e che invece hanno un’importante ruolo anche per il processo di stoccaggio della CO2 dal suolo.

Serena Saponaro - Unsplash

Le siepi

Le siepi sono strutture vegetali lineari composte da specie arboree e arbustive, utilizzate per delimitare proprietà, giardini e spazi pubblici, oltre che per abbellire il paesaggio. Possono essere monospecifiche o miste, a seconda delle esigenze e delle caratteristiche del luogo. Svolgono diverse funzioni fondamentali: proteggono dal vento e dagli sguardi esterni, creano habitat per la fauna selvatica, stabilizzano il suolo prevenendo l’erosione, migliorano la qualità dell’aria trattenendo polveri e sostanze inquinanti e hanno un valore estetico e storico-culturale. Nei centri urbani, le siepi sono particolarmente utili per aumentare la biodiversità, ridurre l’inquinamento, schermare aree poco gradevoli e migliorare la qualità della vita, contribuendo alla creazione di spazi verdi più accoglienti e sostenibili.

Inoltre, possono fungere da barriere acustiche naturali, riducendo i rumori del traffico e creando ambienti più tranquilli. La scelta delle specie vegetali per una siepe è fondamentale per garantirne la funzionalità nel tempo, e spesso si prediligono piante resistenti e adatte al clima locale, come l’alloro, il ligustro, il nocciolo e la quercia. La manutenzione regolare, come la potatura, è essenziale per mantenerne l’efficacia e l’armonia con l’ambiente circostante.

Le siepi per catturare la CO₂

Tuttavia, uno studio della University of Leeds, pubblicato sulla rivista Agriculture, Ecosystems & Environment, ha evidenziato un nuovo possibile ruolo delle siepi. A quanto riportato dallo studio, quest’ultime sarebbero molto più efficaci dei prati nell’immagazzinare anidride carbonica nel suolo. Analizzando diverse località inglesi, tra cui Yorkshire, Cumbria e West Sussex, i ricercatori hanno scoperto che il suolo sotto le siepi cattura in media 40 tonnellate di CO₂ in più per ettaro rispetto ai prati, indipendentemente dal tipo di terreno e dalle condizioni climatiche. Oltre a sequestrare carbonio, le siepi svolgono un ruolo fondamentale negli ecosistemi agricoli poiché forniscono rifugio e cibo alla fauna selvatica, contribuendo alla biodiversità e migliorando la qualità del suolo.

Preservare e piantare nuove siepi

L’analisi condotta dai ricercatori ha rivelato che le siepi immagazzinano fino al 40% in più di carbonio rispetto ai prati, grazie alla decomposizione di foglie, radici e altre sostanze organiche. Inoltre, le siepi più vecchie risultano più efficaci nell’accumulare carbonio rispetto a quelle più giovani, ma esiste un limite massimo di stoccaggio oltre il quale il suolo non può assorbire ulteriore CO₂. Per questo motivo, gli scienziati sottolineano l’importanza di prendersi cura delle siepi già esistenti e di piantarne di nuove, così da massimizzare i benefici ambientali e contrastare i cambiamenti climatici. Questi risultati dimostrano che la gestione attenta del territorio e l’adozione di pratiche agricole sostenibili possono contribuire significativamente alla riduzione delle emissioni e al miglioramento della qualità ambientale su larga scala.


Proprio per queste ragioni, il governo inglese ha incoraggiato da tempo la piantagione di nuove siepi, annunciando l’obiettivo di arrivare a quasi 73mila chilometri di siepi entro il 2050 come strumento di mitigazione dei cambiamenti climatici.

Inoltre, un aspetto particolarmente rilevante emerso dallo studio, spiegano gli autori, è che i risultati sono validi per qualsiasi tipo di suolo, indipendentemente dalla sua composizione e dalle condizioni climatiche. Le aree analizzate sono state selezionate proprio per rappresentare un’ampia varietà di climi, livelli di precipitazioni, temperature e caratteristiche del terreno. In ogni caso, si trattava di pascoli destinati all’allevamento intensivo, delimitati da siepi. Per la ricerca, gli studiosi hanno prelevato campioni di suolo a intervalli di 10 centimetri, fino a una profondità di 50 centimetri, analizzando poi i livelli di carbonio, azoto, pH e umidità.

L’importanza delle siepi negli ecosistemi agricoli

Le siepi non solo favoriscono la cattura della CO₂, ma rappresentano anche un elemento chiave per la salute degli ecosistemi agricoli. Offrono protezione dal vento, stabilizzano il suolo prevenendo l’erosione e creano micro-habitat per insetti impollinatori, uccelli e piccoli mammiferi. Anche in Italia, un rapporto ISPRA del 2010 evidenziava il valore delle siepi nella diversificazione del paesaggio agrario e nella conservazione della biodiversità. Gli agricoltori che hanno iniziato a piantare nuove siepi hanno osservato un aumento della fauna locale, come pipistrelli, uccelli e impollinatori, contribuendo a rendere le loro fattorie più sostenibili. Non a caso lo studio inglese conferma l’importanza di queste pratiche, dimostrando come la gestione e il ripristino delle siepi possano migliorare la salute del suolo e incrementare la capacità di stoccaggio del carbonio.

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“M’illumino di meno”: l’iniziativa per consumare meno energia.

By : Aldo |Febbraio 17, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su “M’illumino di meno”: l’iniziativa per consumare meno energia.

Fare la differenza spesso sembra difficile, soprattutto in ambito di sostenibilità. A volte non è semplice cambiare abitudini o cambiare vita facendo attenzione ad ogni piccolo dettaglio. Tuttavia, si può sempre iniziare da azioni quotidiane, che non richiedono uno sforzo eccessivo, né tanto meno un cambio radicale. Si tratta di piccole accortezze che fanno la differenza e ci rendono parte di un cambiamento di cui beneficeremo tutti. Un esempio, è legato ai consumi energetici, per i quali possiamo fare tantissime cose, una tra tutte, la più semplice e la principale, quella di spegnere le luci quando non sono necessarie.

Yash Patel - Unsplash

I consumi energetici

Il consumo energetico rappresenta la quantità di energia utilizzata da un sistema, una macchina, un edificio o un’intera nazione in un determinato periodo di tempo. Per tale motivo, comprendere i propri consumi è fondamentale per evitare sprechi e ridurre i costi. Nel 2021, in Italia sono stati consumati quasi 301mila GWh di energia elettrica, dove il settore industriale è quello con il maggiore consumo, pari al 45% del totale. A seguire troviamo i servizi con il 30% e dal settore domestico con il 22%, mentre l’agricoltura rappresenta solo il 2%, con un consumo medio pro capite di elettricità è stato di 5.095 kWh.

Fortunatamente, negli ultimi anni, l’Italia ha migliorato la sua efficienza energetica, con un calo del 23,4% del fabbisogno energetico per unità di PIL e una riduzione del 32% delle emissioni per unità di PIL tra il 2005 e il 2022. Mentre a livello europeo, nel 2020 il 58% del fabbisogno energetico è stato coperto dalle importazioni. Purtoppo la principale fonte di energia è stata il petrolio, che ha costituito il 35% del totale.  Seguito dal gas naturale con il 24%, dalle fonti rinnovabili con il 17%, dal nucleare con il 13% e da altri combustibili fossili con l’11%. Per ridurre il consumo energetico, l’Unione Europea ha fissato obiettivi ambiziosi, come la diminuzione del consumo medio annuo nel settore edilizio di almeno il 16% entro il 2030 e tra il 20 e il 22% entro il 2035.

Ridurre gli sprechi

Per limitare i consumi energetici, è essenziale monitorare il proprio utilizzo, individuare eventuali sprechi e adottare strategie per un uso più efficiente dell’energia. Comportamenti virtuosi, come un migliore isolamento termico degli edifici e un utilizzo più consapevole degli apparecchi elettrici, possono fare la differenza. Parallelamente, l’UE sta promuovendo normative per incentivare l’uso delle energie rinnovabili.

Nel settore domestico, il risparmio può essere ottenuto attraverso la riduzione della temperatura interna e del tempo di accensione del riscaldamento, insieme a comportamenti virtuosi come l’uso di elettrodomestici efficienti, l’illuminazione a LED e il miglioramento dell’isolamento termico.

L’industria può migliorare l’efficienza energetica investendo in tecnologie moderne, monitorando i consumi e formando il personale. L’integrazione di fonti rinnovabili come pannelli solari ed eolico riduce la dipendenza dai combustibili fossili. Nel settore dei servizi, strategie come l’uso della luce naturale, il controllo della temperatura e l’automazione degli edifici contribuiscono a ottimizzare l’energia consumata.

L’adozione di queste soluzioni nei vari settori consente di ridurre i consumi e di favorire una transizione verso un futuro più sostenibile.

M’illumino di Meno

Proprio per sensibilizzare sul tema, quest’anno si svolgerà la XXI edizione di M’illumino di Meno dal 16 al 21 febbraio, estendendosi per un’intera settimana per coinvolgere un numero ancora maggiore di partecipanti. Nata come campagna di sensibilizzazione sul risparmio energetico grazie alla trasmissione Caterpillar di Rai Radio2, l’iniziativa prevede lo spegnimento simbolico di luci in edifici istituzionali, piazze, monumenti, negozi, bar e ristoranti. L’obiettivo è trasformare un semplice gesto in un evento collettivo che promuova la consapevolezza ambientale.

Durante la settimana, scuole, istituzioni pubbliche e private e singoli cittadini saranno protagonisti con azioni concrete per il risparmio energetico. Il 21 febbraio, Caterpillar raccoglierà e condividerà le soluzioni adottate dai partecipanti con un focus particolare alla moda sostenibile, per sensibilizzare sull’impatto ambientale del fast fashion e valorizzare pratiche alternative come il riuso, l’upcycling e il second hand.

Parallelamente, la campagna avrà una dimensione europea, con il coinvolgimento delle istituzioni dell’UE e degli italiani all’estero. Tra queste, si svolgerà un’iniziativa ciclistica simbolica, che collegherà Valencia alla Romagna, rafforzando il messaggio della sostenibilità anche attraverso la mobilità dolce.

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Le piante assorbono più nanoplastiche se le temperature aumentano.

By : Aldo |Febbraio 13, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Le piante assorbono più nanoplastiche se le temperature aumentano.

Tutti sappiamo bene che ruolo hanno le piante nel nostro pianeta, tutte, dalla più semplice alla più complessa, da quella di ornamento fino agli ortaggi. La loro salute spesso e volentieri, determina anche la nostra e quella di tutti gli esseri viventi nel mondo.
Allo stesso modo, siamo tutti a conoscenza della pericolosità delle microparticelle di plastica, della loro veicolazione negli ecosistemi e come possono danneggiarli in modo pratico. Pertanto sono stati condotti degli studi, per capire la correlazione tra l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante e i cambiamenti climatici.

Jackie DiLorenzo - Unsplash

Le nanoplastiche

Le nanoplastiche, frammenti derivati dalla degradazione di microplastiche di origine antropica, rappresentano una preoccupante forma di inquinamento. A differenza dei nanomateriali, fabbricati intenzionalmente, le nanoplastiche si formano dalla scomposizione casuale di plastiche più grandi attraverso processi biologici, chimici, fisici e meccanici. Le fonti primarie di queste particelle includono la degradazione di macro e microplastiche derivanti da rifiuti urbani come pellicole agricole, sacchetti di plastica, bottiglie, attrezzi da pesca e pneumatici. E ancora dall’emissione di particelle da prodotti industriali come cosmetici, prodotti per la pulizia e materie prime per la fabbricazione di plastica, nonché dal lavaggio di fibre tessili.

Queste particelle sono diffuse in tutto il pianeta, dai poli artici alle profondità oceaniche, coesistendo con le microplastiche in mari, fiumi, acque superficiali e persino nella neve delle Alpi, indicando la loro capacità di essere trasportate dall’aria anche a grandi distanze. La loro presenza è stata rilevata anche in quantità modeste nelle acque potabili trattate e in alimenti come riso e verdure, nonché in diverse specie di pesci, molluschi e frutti di mare, entrando potenzialmente nella catena alimentare. Si stima che centinaia di migliaia di tonnellate di nanoplastiche galleggino negli ecosistemi marini, contribuendo all’inquinamento globale. Al momento, gli eventuali danni che potrebbero causare all’essere umano sono ancora oggetto di studio.

Lo studio di Pisa

Tra le varie tematiche affrontate e d’interesse in questo settore, è presente anche il processo di assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. In particolare, un recente studio condotto dall’Università di Pisa e pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry ha evidenziato come le alte temperature possano amplificare l’assorbimento delle particelle da parte delle piante. Questa ricerca rappresenta un passo significativo nello studio dell’interazione tra cambiamenti climatici e inquinamento ambientale, analizzando per la prima volta il ruolo del riscaldamento globale nell’accumulo di micro e nanoplastiche nei vegetali.

Il lavoro è stato realizzato dal gruppo di Botanica della professoressa Monica Ruffini Castiglione e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, con la collaborazione delle ricercatrici Stefania Bottega e Debora Fontanini. La sperimentazione è stata condotta nei laboratori dell’Università di Pisa utilizzando come organismo modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante. Questa pianta, grazie alle sue radici sottili e fluttuanti, assorbe facilmente le sostanze disciolte nell’acqua, rendendola ideale per studiare l’accumulo di inquinanti. Per l’esperimento sono state impiegate nanoplastiche di polistirene, una delle plastiche più diffuse nell’uso quotidiano. Tale materia è impiegata nella produzione di posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.

I risultati della ricerca

L’analisi dei dati ha rivelato che a 35°C la quantità di nanoplastiche assorbite dalla pianta aumenta significativamente rispetto alla temperatura ottimale di 25°C. Questo fenomeno ha determinato un deterioramento dei parametri fotosintetici, accompagnato da un incremento dello stress ossidativo e della tossicità nei tessuti vegetali. L’utilizzo di particelle fluorescenti ha inoltre permesso di monitorare con precisione il loro percorso all’interno della pianta, evidenziando la loro distribuzione nei diversi organi e tessuti.

Le ricercatrici coinvolte nello studio hanno sottolineato come l’aumento dell’assorbimento di nanoplastiche in condizioni di temperature elevate possa avere ripercussioni sulle colture agronomiche, con il rischio di facilitare l’ingresso di tali inquinanti nella catena alimentare. Hanno inoltre evidenziato che i cambiamenti climatici non solo intensificano gli effetti negativi dei rifiuti plastici, ma possono anche creare interazioni pericolose tra fattori ambientali e contaminanti, aggravando ulteriormente le problematiche ecologiche. Questo, a loro avviso, dovrebbe incentivare una maggiore consapevolezza e spingere verso comportamenti più sostenibili, come la riduzione dell’uso della plastica monouso.

In conclusione

Questa ricerca apre nuove prospettive sulla comprensione delle interazioni tra inquinamento e cambiamenti climatici, evidenziando la necessità di strategie per limitare la dispersione delle nanoplastiche nell’ambiente.

Le piante, essendo organismi altamente sensibili ma al tempo stesso resilienti agli stress ambientali, rappresentano modelli ideali per studiare l’impatto dei contaminanti sugli organismi viventi, specialmente nel contesto del riscaldamento globale. In questo ambito, le ricerche condotte dal gruppo, in collaborazione con l’Ibbaa Cnr e l’Università di Siena, sono state pionieristiche nello studio delle interazioni tra piante e nanomateriali, dimostrando per la prima volta, a livello ultrastrutturale, l’assorbimento e la traslocazione di nanomateriali plastici nelle cellule vegetali.

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Ammoniaca per conservare l’energia pulita. Quando la chimica aiuta le rinnovabili.

By : Aldo |Febbraio 10, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Ammoniaca per conservare l’energia pulita. Quando la chimica aiuta le rinnovabili.

Le energie rinnovabili, dette anche “pulite” sono in grado di aiutarci nella transizione ecologica di cui abbiamo bisogno. La loro molteplicità da una grande speranza all’urgenza che stiamo vivendo, determina una possibilità di sviluppo e progresso ampia e sostenibile. Dunque la ricerca in questo campo lavora quotidianamente per trovare le innovazioni e le nuove tecnologie per favorire l’energia pulita ai comuni e dannosi combustibili fossili. L’ultima notizia riguarda proprio l’eolico e il solare, e l’ammoniaca come vettore energetico.

L’energia pulita

L’energia pulita, o rinnovabile, proviene da fonti naturali che si rigenerano nel tempo e hanno un impatto ambientale ridotto rispetto ai combustibili fossili. Il suo ruolo è sempre più centrale per la riduzione delle emissioni di gas serra e la lotta ai cambiamenti climatici. Le principali fonti di energia pulita includono il solare, l’eolico, l’idroelettrico, il geotermico, che deriva da materiali organici.

I vantaggi di tale energia sono la sostenibilità a lungo termine, la riduzione delle emissioni inquinanti, l’indipendenza energetica e la creazione di posti di lavoro. Senz’altro, contribuisce a migliorare la qualità dell’aria e la salute pubblica. Tuttavia, presenta anche alcune sfide, come l’intermittenza di alcune fonti, i costi iniziali elevati e l’impatto ambientale legato all’uso del suolo e alla fauna.

Nonostante queste difficoltà, il progresso tecnologico e la riduzione dei costi stanno rendendo l’energia pulita sempre più competitiva. Con adeguati investimenti e politiche di sostegno, può diventare la chiave per un futuro energetico sostenibile.

L’ammoniaca come vettore energetico

L’ammoniaca ha una lunga tradizione industriale e, sin dai primi del Novecento, viene prodotta su larga scala grazie agli studi pionieristici dei premi Nobel Fritz Haber e Carl Bosch. Non a caso, è la seconda sostanza chimica più utilizzata al mondo, con una produzione annua di circa 180 milioni di tonnellate.

Inoltre, ha un’infrastruttura di stoccaggio e distribuzione dal valore di 60 miliardi di dollari, equivalente a quasi il 2% della produzione energetica globale. Attualmente è utilizzata principalmente nella produzione di fertilizzanti, che assorbe circa l’80% della sintesi totale di NH₃. Pertanto, investire nella ricerca significa rendere questo processo meno dipendente dal gas naturale importato e più sostenibile. In questo contesto si inserisce il progetto “Faster”, finanziato dall’Unione Europea con tre milioni di euro attraverso il programma “Horizon UE”. Il tutto è realizzato con la collaborazione dell’Università di Twente, del Politecnico di Milano e di altre realtà accademiche e industriali, tra cui l’Università di Cardiff, Umicore, Proton Ventures, Demcron Suster, LcE e Winterthur Gas & Diesel Ltd.

Lo stoccaggio di energia con ammoniaca

Grazie a tale progetto, si è scoperta la possibilità di conservare l’energia pulita sotto forma di ammoniaca “verde”, affrontando così l’incertezza delle fonti rinnovabili. Il progetto di ricerca Faster (Flexible Ammonia Synthesis Technology for Energy StoRage), guidato dall’Università di Twente con il supporto del Politecnico di Milano, studia un processo per trasformare l’energia solare ed eolica in una riserva energetica facilmente immagazzinabile e trasportabile.

La conversione a monte di questo sistema avviene in due fasi: inizialmente, l’elettricità generata da fonti rinnovabili viene utilizzata per scindere l’acqua nei suoi elementi costitutivi, idrogeno e ossigeno. Successivamente, l’idrogeno si combina con l’azoto, un gas abbondante nell’atmosfera, per formare ammoniaca (NH₃). Quest’ultima funge da vettore energetico, permettendo di immagazzinare e distribuire energia nei momenti di maggiore richiesta. Con una densità energetica comparabile ai combustibili fossili (22,5 MJ/kg), l’ammoniaca offre un’alternativa più sostenibile, con costi e impatti ambientali ridotti e l’assenza di emissioni di CO₂ durante la combustione. Questo approccio rappresenta un importante passo avanti verso la decarbonizzazione e la sicurezza energetica.

Dove occorre ancora lavorare

Nonostante l’ammoniaca sia considerata un elemento chiave nella transizione verso un’energia sostenibile, la sua combustione presenta ancora alcune sfide. Rispetto ai carburanti tradizionali, il processo è più lento, richiede un maggiore apporto energetico per l’innesco e produce quantità più elevate di ossidi di azoto. Per superare queste criticità, la ricerca si concentra sullo sviluppo di nuovi catalizzatori e sistemi avanzati di controllo delle emissioni, con l’obiettivo non solo di rispettare gli obiettivi del Green Deal, ma anche di migliorare le tecnologie impiegate nell’industria chimica.

Gianpiero Groppi, docente del Dipartimento di Energia del PoliMi e membro del team, ha spiegato che il loro contributo si concentra sulla progettazione e ottimizzazione di componenti innovativi per reattori di sintesi e sistemi di separazione dell’ammoniaca, con un approccio sostenibile ed efficiente su piccola scala. Ha inoltre sottolineato che maggiori investimenti nella ricerca potrebbero accelerare l’applicazione commerciale di questa tecnologia, favorendo un futuro energetico più solido e sostenibile.

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Lo spreco di cibo non va (purtroppo) in crisi. 12a giornata di prevenzione dello spreco alimentare.

By : Aldo |Febbraio 06, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Lo spreco di cibo non va (purtroppo) in crisi. 12a giornata di prevenzione dello spreco alimentare.

Il 5 gennaio si è celebrata la 12a edizione della Giornata Mondiale sulla prevenzione dello spreco alimentare. Il tema di quest’anno è #tempodiagire – #timetoact, che sottolinea l’urgenza di ridurre lo spreco alimentare per raggiungere l’obiettivo 12.3 dell’ONU. Le iniziative per supportare questa causa e migliorare la situazione mondiale sono molteplici, come l’app italiana creata da due 17 enni che trasforma gli avanzi da buttare in piatti da degustare.

Jas Min - Unsplash

Lo spreco in Italia

A livello globale, il 40% della produzione alimentare viene sprecato, pari a 2,5 miliardi di tonnellate, in aumento rispetto ai 1,3 miliardi stimati dalla FAO nel 2011, contribuendo all’8-10% delle emissioni globali di gas serra. L’Agenda ONU 2030 mira a dimezzare lo spreco alimentare pro-capite rispetto al 2015, ma tra 2015 e 2021 in Italia è cresciuto del 17% in kcal/persona/giorno, con un aumento del 14% nonostante una riduzione della popolazione del 2,7%. In questo quadro, l’allevamento è il settore più inefficiente, con un 77% di perdita nella conversione in derivati animali. Nello specifico, gli sprechi lungo la filiera sono aumentati del 6%, quelli produttivi del 2% e quelli nel consumo del 9%. Dunque, 1 caloria ogni 3 disponibili viene sprecata, e 1 su 5 è in eccesso rispetto ai fabbisogni medi (+32%), contribuendo al 43% di adulti italiani in sovrappeso o obesi. Al netto di tutto, la filiera perde ben 4,513 milioni di tonnellate di alimenti per un valore di 14,101 miliardi di euro.

Dopo un attento calcolo si può confermare che ogni giorno in Italia si buttano 88,2 grammi di cibo a persona, pari a 617,9 grammi settimanali (maggiormente nel Centro-Sud, dove si registra più insicurezza alimentare). La frutta è l’alimento più scartato (24,3 grammi settimanali), seguita da pane, verdura e tuberi. È difficile anche accettare che il 58,55% dello spreco totale proviene dalle famiglie, per un costo annuo di 8,242 miliardi di euro (130,71 euro pro capite).

L’impronta ecologica dei sistemi alimentari copre l’intera biocapacità italiana, con il 50% dello spreco sistemico che impatta su biodiversità, acque, suoli e clima. Tuttavia, per affrontare il problema servono dati affidabili lungo tutta la catena di fornitura, monitorando i progressi verso l’obiettivo 12.3 dell’ONU e il target 16 del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework. Solo in questo modo si può auspicare ad un vero cambiamento.

Raggiungere gli obiettivi con le best practice

Per raggiungere l’obiettivo dell’Agenda 2030 di dimezzare lo spreco alimentare, gli italiani dovrebbero ridurre di 50 grammi a settimana il cibo sprecato ogni anno fino al 2029. In tal modo si passerebbe dagli attuali 737,4 grammi settimanali a 369,7 grammi. Tuttavia, mentre lo spreco aumenta, cresce anche l’insicurezza alimentare: nel 2025, l’indice FIES segna un +13,95% (rispetto al +10,27% del 2024), e la povertà assoluta in Italia è salita dal 7,7% all’8,5% nel 2023, colpendo 5,7 milioni di persone, con un incremento del 28,9% tra le famiglie straniere.

Il sud e il centro Italia, dove si registra il maggiore impoverimento, sono anche le aree con più spreco alimentare. Chi ha meno possibilità economiche tende ad acquistare cibi di minore qualità, più vicini alla scadenza o più deperibili, contribuendo così allo spreco. Nonostante l’86% degli italiani dichiari di prestare attenzione alla gestione del cibo, solo il 28% chiede la doggy bag al ristorante e appena il 10% dona gli avanzi cucinati a parenti o amici. Circa 6 italiani su 10 adottano strategie per ridurre gli sprechi, come consumare prima i cibi prossimi alla scadenza o congelarli, mentre il 56% testa gli alimenti scaduti prima di buttarli. Tuttavia, un italiano su tre non pensa al rischio dello spreco, il 23% lo ritiene troppo impegnativo, l’11% troppo costoso e il 10% crede che il contributo personale non faccia la differenza.

Per ridurre gli sprechi, il 50% degli italiani è disposto a consumare prima gli alimenti che rischiano di guastarsi, il 45% a congelarli, il 40% a utilizzare cibi appena scaduti se ancora buoni, il 37% a valutare meglio le quantità da cucinare, il 32% a pianificare la spesa e comprare prodotti di stagione. Solo il 6% pensa di donare il cibo cucinato in eccesso.

L’app “Cucinalo”

Fortunatamente, ci sono i giovani che pensano al futuro. In questo caso parliamo di Matteo Morvillo e Amedeo Valestra, due 17enni di Massa Lubrense, che hanno creato “Cucinalo”, un’app che utilizza l’intelligenza artificiale per ridurre lo spreco alimentare domestico. L’app permette di fotografare gli ingredienti disponibili in frigo o in dispensa e suggerisce ricette personalizzate in pochi secondi, considerando allergie, intolleranze e preferenze alimentari. Inoltre, offre un catalogo di ricette tradizionali suddivise per categoria e suggerimenti sull’impiattamento.

L’app è disponibile a titolo gratuito su tutti gli store, integrando funzioni avanzate come la creazione di un ricettario personalizzato, un timer di cottura e la possibilità di salvare e condividere le ricette preferite. La sua efficienza e il suo apprezzamento ha fatto sì che, ad un mese dal lancio ha già superato 3.500 utenti e contribuito al riutilizzo di oltre 300 kg di cibo. Gli ideatori si sono autofinanziati e stanno lavorando a nuove funzionalità, come la digitalizzazione dei ricettari cartacei. Il loro obiettivo è quello di trasformare le abitudini alimentari delle persone in un’ottica sostenibile, senza sconvolgere la quotidianità, anzi, facilitandola. In questo modo, l’applicazione dei due ragazzi, affronta una delle sfide più urgenti del nostro tempo, ovvero ridurre lo spreco alimentare e i suoi impatti economici, sociali e ambientali.

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Zone umide artificiali per stoccare la CO2. Un progetto conveniente?

By : Aldo |Febbraio 03, 2025 |Emissioni, Home, obiettivomeno emissioni |Commenti disabilitati su Zone umide artificiali per stoccare la CO2. Un progetto conveniente?
Sara Cottle - Unsplash

La Giornata Mondiale delle Zone Umide, celebrata il 2 febbraio, sottolinea l’importanza di adottare politiche integrate per la salvaguardia di questi fragili ambienti, essenziali per la biodiversità e la stabilità climatica del pianeta. Queste zone sono oggetto di studi, sia per le loro condizioni precarie causate dal cambiamento climatico sia perché potrebbero essere degli ottimi stock di CO2. Per questo si studia la possibilità di creare dei siti artificiali e i relativi benefici o svantaggi. 

Le zone umide

Le zone umide rappresentano ecosistemi complessi in cui acqua e suolo si uniscono, offrendo un habitat ricco di biodiversità e svolgendo funzioni ecologiche fondamentali. La loro origine dipende da specifiche condizioni idrologiche, con terreni costantemente saturi d’acqua che favoriscono la crescita di piante adattate, come canne e ninfee, e offrono rifugio a numerose specie di anfibi, rettili e uccelli acquatici.

La Convenzione adottata nel 1971 e ratificata da 168 Paesi, è l’unico accordo internazionale volto a proteggere questi ecosistemi. Secondo il testo, le zone umide includono paludi, stagni, lagune, torbiere, bacini naturali o artificiali e zone costiere marine con profondità inferiori ai 6 metri durante la bassa marea.  I suoi obiettivi principali sono:

  • L’identificazione dei siti di rilevanza internazionale
  • La promozione dell’uso sostenibile delle risorse naturali
  • La cooperazione transfrontaliera per una gestione condivisa

Distribuite su tutti i continenti, le zone umide contano oltre 2.209 siti Ramsar per un totale di 250 milioni di ettari. In Italia, vi sono 51 aree protette, tra cui lo Stagno di Cagliari, le Valli residue del Delta del Po e le Saline di Cervia.

L’emergenza Ramsar

Nonostante le misure di tutela, il 64% delle zone umide del pianeta è scomparso dal 1900, con una perdita aggiuntiva del 35% a partire dal 1970. Nello specifico, negli ultimi secoli, si è perso oltre il 50% delle zone umide globali, in particolare in Ohio il declino raggiunge il 90%. In in Italia, dal ‘700 a oggi, la perdita supera il 75%.  Le principali minacce includono l’urbanizzazione, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e le alterazioni idrologiche. Questi ecosistemi hanno una grande rilevanza poiché filtrano fino al 90% degli inquinanti dalle acque, immagazzinando circa il 30% del carbonio terrestre e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico.

La ricerca dell’Ohio State University

Uno studio dell’Olentangy River Wetland Research Park (ORWRP) a dell’Ohio State University ha monitorato per 29 anni una zona umida artificiale nel Midwest degli Stati Uniti, una regione che ha perso circa il 90% di questi ecosistemi. I risultati mostrano che, dopo i primi 15 anni, il tasso di sequestro del carbonio si stabilizza, indicando che la capacità di assorbimento di CO₂ delle zone umide artificiali è più efficace nei primi anni di vita e diminuisce progressivamente fino a raggiungere un equilibrio.

La ricerca mostra un tasso medio di stoccaggio del carbonio di 3,58 ± 2,21 kg C/m², pari a 0,12 ± 0,08 kg C/m² all’anno. Questi dati sottolineano la capacità di tali aree, a raggiungere un equilibrio ecologico stabile e contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici.

Lo studio dunque sottolinea quindi, la possibilità delle zone umide artificiali nel contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici grazie alla loro capacità di assorbire anidride carbonica. Tuttavia, questa capacità di sequestro del carbonio è più efficace nei primi anni e tende a diminuire fino a stabilizzarsi dopo circa 15 anni, a differenza delle zone umide naturali che continuano a svolgere questa funzione nel lungo periodo.

Nonostante queste limitazioni, la creazione di nuove zone umide rappresenta una strategia utile per ridurre la concentrazione di CO₂ in atmosfera, soprattutto in considerazione della significativa perdita di questi ecosistemi a livello globale e della necessità di soluzioni basate sulla natura per affrontare la crisi climatica.

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Greenpeace pubblica la prima mappatura nazionale dei PFAS in Italia.

By : Aldo |Gennaio 30, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Greenpeace pubblica la prima mappatura nazionale dei PFAS in Italia.
Carl Tronders - Unsplash

Da anni di discute sulla questione della contaminazione delle acque italiane. Tanti sono stati gli studi pubblicati, i report sviluppati e le manifestazioni svolte. Eppure ancora nessuno aveva mai mappato la situazione nazionale in modo preciso e completo. Greenpeace si è fatta carico di questo studio, proponendo una mappatura chiara, in prossimità dell’approvazione della legge sui PFAS, che sembra non essere la soluzione al problema italiano. 

Emergenza PFAS

I PFAS, sostanze chimiche usate nell’industria per le loro proprietà idro- e oleo-repellenti, sono noti come “inquinanti eterni” perché si degradano molto lentamente, contaminando acqua, aria, alimenti e il corpo umano. Alcuni, come il PFOA e il PFOS, sono cancerogeni o interferenti endocrini, con effetti negativi su tiroide, fegato, sistema immunitario e fertilità. Nonostante la loro pericolosità, solo poche molecole sono vietate a livello globale o europeo, mentre nuove varianti continuano a diffondersi. Particolarmente preoccupanti sono i PFAS a catena ultracorta, come il TFA, che si trovano ovunque e non possono essere rimossi con i trattamenti di potabilizzazione. In Italia, non esistono dati pubblici sulla loro presenza.

Nonostante ciò, in Italia, la direttiva comunitaria 2020/2184, recepita con il D.Lgs 18/2023, introdurrà limiti ai PFAS nelle acque potabili solo dal 12 gennaio 2026. Attualmente, non esiste l’obbligo di monitorare questi inquinanti, nonostante casi gravi di contaminazione siano stati documentati in Veneto e Piemonte, con criticità anche in Lombardia e Toscana. Inoltre, i controlli sulle acque potabili sono limitati, determinando delle grandi lacune di dati, che possono aggravare l’emergenza. Non è un caso che i dati ambientali raccolti tra il 2019 e il 2022 segnalano una contaminazione diffusa in tutte le regioni monitorate, confermata anche dall’Agenzia Europea per l’Ambiente.

Le carenze delle leggi

La direttiva UE 2020/2184 ha fissato limiti per i PFAS nelle acque potabili: 500 nanogrammi per litro per i PFAS totali e 100 nanogrammi per litro per la somma di 24 molecole in Italia. Tuttavia, questi valori non sono pienamente allineati con le soglie di rischio per la salute umana. Nello specifico, l’EFSA, nel 2020, ha raccomandato limiti di esposizione molto più bassi per quattro PFAS (PFOA, PFOS, PFNA e PFHxS), spingendo Paesi come Danimarca, Germania, Svezia e Stati Uniti a introdurre limiti più severi, vicini alla “soglia zero”.

Consapevole della necessità di proteggere meglio la salute pubblica, la Commissione Europea ha incaricato l’OMS di valutare i rischi dei PFAS nell’acqua potabile. Anche l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha sollecitato una revisione dei limiti. In Italia, già nel 2019, l’Istituto Superiore di Sanità consigliava restrizioni più rigide, sottolineando che PFOA e PFOS non dovrebbero essere presenti nelle acque destinate al consumo umano.

Nonostante ciò e pur non disponendo delle stesse risorse degli enti pubblici, l’indagine di Greenpeace Italia, “ACQUE SENZA VELENI” rappresenta un’iniziativa pionieristica. L’organizzazione ha realizzato la prima mappa della presenza di PFAS nelle acque potabili italiane, analizzando le reti acquedottistiche di diverse regioni prima ancora delle autorità competenti.

I risultati della ricerca

Secondo i dati raccolti dall’indagine, il 79% dell’acqua potabile in Italia contiene inquinanti eterni, i “forever chemicals” che sono legati a patologie come tumori e interferenze con il sistema endocrino. La contaminazione da PFAS, le sostanze per- e polifluoroalchiliche, riguarda tutte le regioni e la concentrazione di sostanze pericolose spesso supera ampiamente i limiti che sono considerati sicuri per legge.

La ricerca si è svolta nei mesi di settembre e ottobre in Italia, per la raccolta di ben 260 campioni in 235 comuni appartenenti a tutte le Regioni e Province autonome italiane. La quasi totalità dei campioni è stata prelevata presso fontane pubbliche e, una volta raccolti, i campioni sono stati analizzati da un laboratorio indipendente e accreditato per la quantificazione di 58 molecole appartenenti all’ampio gruppo dei PFAS. Per ogni provincia i campionamenti hanno interessato tutti i comuni capoluogo. In alcune grandi città sono stati eseguiti due campionamenti (Ancona, Bari, Cagliari, Campobasso, Firenze, Genova, L’Aquila, Milano, Napoli, Palermo, Potenza, Reggio Calabria, Roma, Torino, Trieste, Venezia).

I dati hanno dimostrato che 206 i campioni su 260 risultano contaminati da almeno una delle 58 sostanze monitorate, con soli 54 campioni (21%) privi di PFAS. Le molecole più diffuse sono risultate, nell’ordine:

  • il cancerogeno PFOA (nel 47% dei campioni);
  • il composto a catena ultracorta TFA (in 104 campioni, il 40% del totale, presente in maggiori quantità in tutti quei campioni in cui è stato rilevato)
  • il possibile cancerogeno PFOS (in 58 campioni, il 22% del totale).

Livelli elevati si registrano in Lombardia, Piemonte, Veneto, in Emilia-Romagna, Liguria, Toscana, Sardegna, Perugia e Umbria. Nell’ambito delle sue analisi indipendenti, Greenpeace Italia ha inoltre verificato la presenza nelle acque potabili italiane del TFA, la molecola del gruppo dei PFAS più diffusa sul pianeta, per cui nel nostro Paese non esistono dati pubblici. Il TFA è una sostanza persistente e indistruttibile ancora oggetto di approfondimenti scientifici che, per le sue stesse caratteristiche, non può essere rimossa mediante i più comuni trattamenti di potabilizzazione.

Il comune di Castellazzo Bormida (AL) ha mostrato i valori più elevati (539,4 nanogrammi per litro), seguito da Ferrara (375,5 nanogrammi per litro) e Novara (372,6 nanogrammi per litro). Concentrazioni molto alte si registrano anche ad Alghero (SS), Cuneo, Sassari, Torino, Cagliari, Casale Monferrato (AL) e Nuoro. La Sardegna (77% dei campioni positivi), il Trentino Alto Adige (75% dei campioni positivi) e il Piemonte (69% dei campioni positivi) sono le Regioni in cui la contaminazione da TFA è risultata essere più diffusa.

In conclusione

Nonostante le evidenze sui gravi danni alla salute causati dai PFAS e la loro diffusa contaminazione nelle acque potabili italiane, il governo continua a ignorare l’emergenza senza adottare misure efficaci per proteggere la popolazione e l’ambiente. In Italia non esiste ancora una legge che vieti l’uso e la produzione di queste sostanze, rendendo urgente un’azione immediata per eliminarle. Greenpeace Italia ha lanciato una petizione, firmata da oltre 136 mila persone, per chiedere il bando totale dei PFAS e la loro sostituzione con alternative più sicure, già disponibili in quasi tutti i settori industriali. Tuttavia, il governo non ha ancora risposto, lasciando milioni di persone esposte a questa contaminazione.


Tuttavia, quella di Greenpeace è la prima mappatura completa degli inquinanti eterni nell’acqua potabile mai realizzata nel nostro paese, dunque c’è margine di miglioramento, di progresso e di speranza.

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Fiumicino. Inaugurato il parco fotovoltaico aeroportuale più grande d’Europa.

By : Aldo |Gennaio 27, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Fiumicino. Inaugurato il parco fotovoltaico aeroportuale più grande d’Europa.
American Public Power Association - Unsplash

L’aeroporto di Fiumicino “Leonardo Da Vinci” ha migliorano nei decenni la qualità dei suoi servizi, delle sue strutture e soprattutto ha incrementato il livello della sua sostenibilità.
Da anni raccoglie primati in vari settori, diventando a suo modo una peculiare eccellenza italiana. Non a caso l’ultimo primato riguarda una grande passo avanti per la sostenibilità e la transizione energetica.

Leonardo Da Vinci

L’Aeroporto di Fiumicino rappresenta un elemento fondamentale del sistema di trasporti italiano e una porta d’accesso privilegiata per il traffico aereo nazionale e internazionale. Inaugurato il 15 gennaio 1961, lo scalo ha conosciuto una crescita costante fin dai primi anni, con ampliamenti significativi realizzati negli anni ’60 e ’70 per far fronte al crescente volume di passeggeri e merci. Dal 1974, è gestito da Aeroporti di Roma (ADR), che ha modernizzato le infrastrutture e migliorato i servizi offerti.

Nel 2023, l’Aeroporto di Fiumicino ha accolto 40,5 milioni di passeggeri, confermandosi il principale scalo italiano per traffico passeggeri e il secondo per volume di merci, con oltre 184.000 tonnellate di cargo movimentate. Grazie alla presenza di numerose lounge e i suoi collegamenti globali, l’aeroporto si distingue come un hub strategico per il trasporto aereo. Unendo storia e modernità, con le sue radici nella tradizione e lo sguardo rivolto al futuro, l’Aeroporto di Fiumicino è un’infrastruttura unica e indispensabile per l’Italia.

Primati e riconoscimenti

L’Aeroporto Internazionale di Roma-Fiumicino “Leonardo da Vinci” si distingue come uno degli scali più premiati e innovativi al mondo, consolidando la sua posizione come punto di riferimento per la qualità dei servizi, l’innovazione e la sicurezza. Infatti nel corso degli anni, l’aeroporto ha raggiunto numerosi traguardi prestigiosi quali:

  • Miglior Aeroporto in Europa: dal 2017 al 2023 secondo l’ACI (Airport Council International) Europe.
  • Digital Transformation Award: (2024);
  • Airport Service Quality Award: per 5 volte consecutive, un risultato che lo colloca nell’élite degli aeroporti più apprezzati al mondo.
  • Sicurezza Aeroportuale: nel 2024, è stato insignito del titolo di “Miglior Aeroporto al Mondo per la Sicurezza Aeroportuale” durante i prestigiosi World Airport Awards di Skytrax.
  • Miglior Personale Aeroportuale in Europa.

Dal 2017 al 2023, l’aeroporto è stato per sette anni consecutivi il migliore d’Europa nella categoria degli scali con oltre 40 milioni di passeggeri. Ha inoltre trionfato agli Europe Best Airport Awards del 2022 e ricevuto premi ASQ come miglior aeroporto europeo nel 2018 e 2019. Il 2024 è stato un anno particolarmente significativo, grazie al conseguimento di tre premi di altissimo profilo: miglior aeroporto europeo, miglior aeroporto per la sicurezza e leader nella trasformazione digitale.

Il fotovoltaico aeroportuale

L’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino ha recentemente inaugurato il più grande impianto fotovoltaico in autoconsumo mai realizzato in uno scalo europeo e uno dei più estesi al mondo. Il progetto, realizzato da Enel X in collaborazione con Circet e Aeroporti di Roma (ADR), prevede l’installazione di circa 55.000 pannelli fotovoltaici in silicio monocristallino su un’area di 340.000 m², lungo il lato Est della Pista 3. La potenza installata attuale è di 22 MWp, con una produzione annua di 32 GWh, che soddisferebbe il fabbisogno energetico di 30.000 famiglie e ridurrebbe le emissioni di CO₂ di oltre 11.000 tonnellate all’anno.

Questo intervento rappresenta un tassello cruciale nella strategia di sostenibilità di ADR, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030, vent’anni prima del target del settore. Il progetto include un sistema di storage energetico da 10 MWh, basato su batterie second-life, che garantirà l’ottimizzazione dell’energia prodotta. L’investimento, del valore complessivo di 50 milioni di euro, rientra in un piano più ampio di mobilità sostenibile e generazione rinnovabile da 200 milioni di euro, che prevede l’espansione della capacità fotovoltaica fino a 60 MWp entro il 2030.

La cerimonia di inaugurazione ha visto la partecipazione di rappresentanti istituzionali e aziendali, tra cui il Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il Presidente di ADR Marco Troncone e il Presidente di Mundys Giampiero Massolo. I leader hanno sottolineato come questa iniziativa coniughi sostenibilità e innovazione, consolidando Fiumicino come hub green all’avanguardia, in linea con le direttive europee e i più elevati standard ESG.

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Roma è la prima città italiana ad approvare una Strategia di adattamento climatico.

By : Aldo |Gennaio 20, 2025 |Emissioni, Home |Commenti disabilitati su Roma è la prima città italiana ad approvare una Strategia di adattamento climatico.
Mathew Schwartz - Unsplash

Gli incendi divampati a Los Angeles e successivamente in Argentina sono solo alcuni dei fenomeni estremi avvenuti per colpa del cambiamento climatico. Durante gli ultimi anni stanno aumentando la loro frequenza e la loro intensità al punto che ogni Nazione ha la necessità e in certi casi l’urgenza di definire un piano d’azione per contrastarli. O almeno per non trovarsi impreparata nel momento in cui si verificano, evitando gravi danni ambientali, urbanistici e sociali. Roma al momento è la prima città italiana ad averne redatto uno.

Strategia di Adattamento Climatico

La Strategia di Adattamento Climatico è un approccio sistematico volto a preparare le società e gli ecosistemi agli impatti dei cambiamenti climatici. Essa si concentra sull’anticipazione degli effetti negativi del cambiamento climatico e sull’adozione di misure adeguate per ridurre al minimo i danni o sfruttare le opportunità che possono emergere. Questo include azioni come la costruzione di infrastrutture resilienti, la modifica delle pratiche agricole e l’implementazione di politiche di gestione delle risorse naturali.

La strategia ha lo scopo di perseguire diversi obiettivi fondamentali, tra cui la riduzione della vulnerabilità, ovvero diminuire la suscettibilità dei sistemi naturali e socio-economici agli impatti climatici. È fondamentale per migliorare la capacità di resilienza e punta a proteggere la popolazione, salvaguardando la salute, il benessere e i beni delle persone. Questo è possibile attraverso la gestione dei rischi legati agli eventi meteorologici estremi. Infine, promuove lo sviluppo sostenibile, adottando un approccio integrato che unisce adattamento e mitigazione e contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità.

Tale strategia ha un’importanza significativa poiché gli effetti dei cambiamenti climatici sono già evidenti e destinati a intensificarsi, rendendo imprescindibile un intervento immediato per affrontarli. Inoltre, determinano rischi complessi e interconnessi, con potenziali impatti significativi su vari settori e regioni evidenziando l’urgenza di adottare misure di adattamento. Infine, una strategia di adattamento ben strutturata può rappresentare anche un’opportunità economica, favorendo la sicurezza degli investimenti e promuovendo una crescita sostenibile.

I fenomeni in Italia

Per presentare un quadro generale, al 31 dicembre 2022, la situazione del rischio idrogeologico in Italia evidenziava una realtà allarmante. Il 93,9% dei comuni italiani (7.423) risultava interessato da rischi legati a frane, alluvioni e/o erosione costiera. A rischio frane erano esposti 1,3 milioni di abitanti, mentre 6,8 milioni vivevano in zone minacciate da alluvioni. Le famiglie coinvolte dai pericoli di frane superavano le 548.000, mentre quelle a rischio alluvioni oltrepassavano i 2,9 milioni. Sul totale di più di 14,5 milioni di edifici nel Paese, quelli situati in aree a pericolosità da frana elevata o molto elevata erano oltre 565.000 (3,9%), mentre gli edifici localizzati in aree soggette a inondazioni nello scenario di media pericolosità ammontavano a più di 1,5 milioni (10,7%).

Mentre parlando della Capitale, l’impatto dei cambiamenti climatici e il rischio climatico per Roma assumono proporzioni rilevanti. Per quanto riguarda il rischio idrogeologico, circa 400.000 persone vivono in aree esposte, con 145.000 direttamente vulnerabili alle esondazioni e 245.000 a rischio di alluvioni lampo. Inoltre, l’aumento delle temperature ha reso le ondate di calore più frequenti e intense, causando effetti negativi sulla salute pubblica, specialmente nei quartieri più vulnerabili. In questo contesto, il 9% della popolazione risiede in quartieri a rischio durante prolungati periodi di caldo intenso, mentre il 26% degli anziani sopra i 65 anni vive in zone dove il caldo eccessivo estivo, combinato con elevati livelli di smog, rappresenta un serio pericolo per la salute. I quartieri maggiormente esposti, a causa dell’elevata cementificazione e della scarsità di parchi e aree verdi, includono Tiburtino Sud, Tor Sapienza, La Rustica, Prati, XX Settembre, Esquilino, Celio, Centro Storico, Nomentano, Università, Verano, San Lorenzo e Flaminio.

La Strategia di Roma

Proprio per le ragioni appena elencate, Roma ha redatto un piano d’azione per poter affrontare i cambiamenti del futuro. Il documento preparato presenta 368 pagine nel quale si determina la volontà di raggiungere 5 macro-obiettivi:

  • Ridurre i rischi per la sicurezza e la salute delle persone: per rafforzare i sistemi di allerta e prevenzione per piogge intense, alluvioni e ondate di calore. Inoltre è cruciale per l’integrazione di infrastrutture resilienti per migliorare la vivibilità urbana.
  • Ripensare il rapporto con l’acqua e il mare: per una gestione sostenibile delle risorse idriche, riducendo il consumo di acqua sorgiva e promuovendo il riutilizzo dell’acqua piovana e depurata. Con attenzione alla protezione del litorale contro l’erosione e l’innalzamento del mare.
  • Ridurre il caldo nei quartieri e migliorarne la vivibilità: al fine di contrastare l’effetto isola di calore urbana con interventi di forestazione, aumento degli spazi verdi e uso di materiali riflettenti.
  • Iniziare dai quartieri più fragili: dando priorità alle aree con alta vulnerabilità sociale e climatica, coinvolgendo il Terzo Settore e rafforzando il supporto alle comunità locali.
  • Costruire un’economia resiliente: per mitigare i danni economici nei settori chiave come agricoltura, industria e turismo, favorendo soluzioni sostenibili e innovative.

In conclusione

Nello specifico, la Strategia è stata elaborata con il supporto di enti scientifici di alto livello, come il CMCC, ed è poi stata soggetta a un lungo periodo di consultazione pubblica. Dopo tali analisi e studi, sono state individuate le 4 priorità da affrontare dal piano:

  • piogge intense e alluvioni che mettono a rischio quartieri e infrastrutture;
  • la sicurezza degli approvvigionamenti idrici in uno scenario di riduzione delle precipitazioni e periodi più lunghi di siccità;
  • l’adattamento dei quartieri alle crescenti temperature con conseguenze sulla salute delle persone;
  • gli impatti sul litorale costiero dei processi di erosione e di fenomeni di piogge e trombe d’aria sempre più violenti, in uno scenario di innalzamento del livello del mare.

Ad oggi Roma è la prima città italiana ad aver redatto questo tipo di documento. Sicuramente vista la sua popolazione e la sua importanza a livello globale, era un lavoro necessario ed urgente.
Adesso non resta che mettersi a lavoro per far sì che tale documento, non rimanga solo un mucchio di fogli ma un testo che possa proteggere veramente i cittadini romani e non solo.

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