
La Giornata Mondiale delle Zone Umide, celebrata il 2 febbraio, sottolinea l’importanza di adottare politiche integrate per la salvaguardia di questi fragili ambienti, essenziali per la biodiversità e la stabilità climatica del pianeta. Queste zone sono oggetto di studi, sia per le loro condizioni precarie causate dal cambiamento climatico sia perché potrebbero essere degli ottimi stock di CO2. Per questo si studia la possibilità di creare dei siti artificiali e i relativi benefici o svantaggi.
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Le zone umide
Le zone umide rappresentano ecosistemi complessi in cui acqua e suolo si uniscono, offrendo un habitat ricco di biodiversità e svolgendo funzioni ecologiche fondamentali. La loro origine dipende da specifiche condizioni idrologiche, con terreni costantemente saturi d’acqua che favoriscono la crescita di piante adattate, come canne e ninfee, e offrono rifugio a numerose specie di anfibi, rettili e uccelli acquatici.
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La Convenzione adottata nel 1971 e ratificata da 168 Paesi, è l’unico accordo internazionale volto a proteggere questi ecosistemi. Secondo il testo, le zone umide includono paludi, stagni, lagune, torbiere, bacini naturali o artificiali e zone costiere marine con profondità inferiori ai 6 metri durante la bassa marea. I suoi obiettivi principali sono:
- L’identificazione dei siti di rilevanza internazionale
- La promozione dell’uso sostenibile delle risorse naturali
- La cooperazione transfrontaliera per una gestione condivisa
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Distribuite su tutti i continenti, le zone umide contano oltre 2.209 siti Ramsar per un totale di 250 milioni di ettari. In Italia, vi sono 51 aree protette, tra cui lo Stagno di Cagliari, le Valli residue del Delta del Po e le Saline di Cervia.
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L’emergenza Ramsar
Nonostante le misure di tutela, il 64% delle zone umide del pianeta è scomparso dal 1900, con una perdita aggiuntiva del 35% a partire dal 1970. Nello specifico, negli ultimi secoli, si è perso oltre il 50% delle zone umide globali, in particolare in Ohio il declino raggiunge il 90%. In in Italia, dal ‘700 a oggi, la perdita supera il 75%. Le principali minacce includono l’urbanizzazione, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e le alterazioni idrologiche. Questi ecosistemi hanno una grande rilevanza poiché filtrano fino al 90% degli inquinanti dalle acque, immagazzinando circa il 30% del carbonio terrestre e contribuiscono a mitigare il cambiamento climatico.
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La ricerca dell’Ohio State University
Uno studio dell’Olentangy River Wetland Research Park (ORWRP) a dell’Ohio State University ha monitorato per 29 anni una zona umida artificiale nel Midwest degli Stati Uniti, una regione che ha perso circa il 90% di questi ecosistemi. I risultati mostrano che, dopo i primi 15 anni, il tasso di sequestro del carbonio si stabilizza, indicando che la capacità di assorbimento di CO₂ delle zone umide artificiali è più efficace nei primi anni di vita e diminuisce progressivamente fino a raggiungere un equilibrio.
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La ricerca mostra un tasso medio di stoccaggio del carbonio di 3,58 ± 2,21 kg C/m², pari a 0,12 ± 0,08 kg C/m² all’anno. Questi dati sottolineano la capacità di tali aree, a raggiungere un equilibrio ecologico stabile e contribuire alla lotta contro i cambiamenti climatici.
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Lo studio dunque sottolinea quindi, la possibilità delle zone umide artificiali nel contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici grazie alla loro capacità di assorbire anidride carbonica. Tuttavia, questa capacità di sequestro del carbonio è più efficace nei primi anni e tende a diminuire fino a stabilizzarsi dopo circa 15 anni, a differenza delle zone umide naturali che continuano a svolgere questa funzione nel lungo periodo.
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Nonostante queste limitazioni, la creazione di nuove zone umide rappresenta una strategia utile per ridurre la concentrazione di CO₂ in atmosfera, soprattutto in considerazione della significativa perdita di questi ecosistemi a livello globale e della necessità di soluzioni basate sulla natura per affrontare la crisi climatica.