Come spesso si ricorda, lo studio e la ricerca da parte delle università e dei centri specializzati non finiscono mai (soprattutto se ben finanziati). La ricerca è fondamentale per lo sviluppo e il progresso di ogni popolazione poiché trova nuove soluzioni a questioni ordinarie e straordinarie. Ma soprattutto può trovare risposte o tornare su scoperte storiche ribaltando totalmente quello che sappiamo da una vita. Un esempio è la nuova scoperta dell’“ossigeno oscuro”.
Le fonti di ossigeno
Dalle elementari fino alle scuole superiori, nei programmi di scienze, ci troviamo a studiare più volte l’importanza dell’ossigeno sulla terra. Sappiamo quindi che è fondamentale per quasi ogni forma di vita e che principalmente ci viene donato dalle grandi foreste del mondo. Tuttavia, approfondendo questo argomento si scoprono tante altre nozioni che sono rilevanti, soprattutto per infondere in ognuno di noi, una maggiore consapevolezza sull’ambiente e sulla sua salvaguardia. In questo caso parliamo di ossigeno e delle sue fonti, che sono varie ma essenziali per tutti noi. Generalmente si parla di fonti rappresentate da organismi fotosintetici, che si trovano sia negli oceani che sulla terraferma.
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La prima grande fonte, sono gli oceani che grazie alle alghe e ai cianobatteri producono approssimativamente circa 6,1 gigatonnellate di ossigeno all’anno. Di queste, fino al 20% è prodotto da cianobatteri, come il Prochlorococcus (tra i più piccoli organismi fotosintetici). Grazie al loro lavoro, questi esseri viventi contribuiscono alla produzione di oltre la metà dell’ossigeno presente nell’atmosfera.
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Mentre per quanto riguarda la terraferma, si individuano le piante verdi (alberi e arbusti), e quindi boschi e foreste, che producono circa 8 gigatonnellate di ossigeno all’anno. La quantità emessa varia in base alla specie vegetale e alla loro area fogliare. Alberi come abeti, aceri e faggi sono tra i più produttivi, mentre piante più piccole o meno sviluppate producono meno ossigeno.
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L’ossigeno oscuro
Uno studio condotto recentemente dal professor Andrew K. Sweetman e il suo gruppo di ricercatori presso la Scottish Association for Marine Science (SAMS) ha rivelato che alcune rocce nei fondali marini possono generare elettricità sufficiente a creare elettrolisi, scomponendo l’acqua e producendo ossigeno molecolare. Durante l’esperimento, gli studiosi hanno constatato che in due giorni, l’ossigeno è aumentato fino a tre volte la concentrazione iniziale a 4.000 metri di profondità, dove la luce non arriva. Per tale motivo e quindi è chiamato ossigeno “oscuro” o “buio”.
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Questa scoperta potrebbe essere fondamentale per comprendere l’origine della vita sulla Terra, suggerendo che l’ossigeno potrebbe essere stato prodotto nelle profondità marine prima dell’apparizione degli organismi fotosintetici. Il biologo Jeffrey J. Marlow dell’Università di Boston, autore dello studio, ipotizza che questa nuova fonte di ossigeno potrebbe sostenere la vita animale e l’ecosistema dei fondali marini. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche per confermare questa ipotesi.
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Tale scoperta risale al 2013, quando Sweetman aveva notato anomalie nel flusso di ossigeno, ritrovate in successive misurazioni nel 2021. Tali rilevamenti hanno confermato l’aumento di ossigeno in condizioni di oscurità in assenza di organismi fotosintetici. Dunque, gli scienziati hanno ipotizzato che i noduli polimetallici fossero responsabili, producendo ossigeno attraverso un processo di elettrolisi. Di seguito, anche i test di laboratorio hanno mostrato che questi noduli agiscono come “geobatterie”, generando una piccola corrente elettrica (1 volt circa ciascuno) che scinde le molecole di acqua (H2O) in idrogeno e ossigeno, che viene così liberato. Questo processo è chiamato elettrolisi. Dunque, Sweetman ha dichiarato che potrebbe trattarsi di una nuova fonte naturale di ossigeno, implicando quindi, la possibile produzione di ossigeno per altri mondi, suggerendo la possibilità di vita extraterrestre.
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Le possibili controversie
Tuttavia, questo studio sui noduli polimetallici potrebbe avere implicazioni significative per le società minerarie, interessate a materiali essenziali per le tecnologie energetiche rinnovabili. Proprio i noduli, ricchi di terre rare, cobalto, nickel, litio e manganese, sono stati trovati nella zona di Clarion-Clipperton nel Pacifico, un’area ricca di risorse minerarie. L’estrazione di questi materiali potrebbe danneggiare un ecosistema marino che ospita oltre 5.000 specie animali ancora sconosciute, come evidenziato da uno studio pubblicato su Current Biology. Purtoppo però, 16 appaltatori hanno già ricevuto contratti per l’esplorazione di un’area totale di circa 1 milione di chilometri quadrati proprio nella zona di Clarion-Clipperton.
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Pertanto, l’industria mineraria in acque profonde sta sviluppando tecnologie per raccogliere i noduli su vasta scala, utilizzando bracci metallici, sottomarini e veicoli telecomandati (ROV) per trasportarli su navi verso i siti di lavorazione.
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È ovvio che si tratti di un’ipotesi eccitante, che merita di essere approfondita, ma è necessario supportare e tutelare il più possibile i delicati ecosistemi marini dallo sfruttamento industriale. A tal proposito è stata già creata petizione firmata da più di 800 scienziati marini di 44 paesi diversi volta ad evidenziare i rischi ambientali, chiedendo quindi una pausa nell’attività mineraria.